Una matita vera

- La storia di Lee Stringer -


Lee Stringer

Raggomitolato all'interno della propria tana in uno dei bassi cunicoli della Stazione Centrale di New York, Lee Stringer - uno straccione, un senzatetto, un drogato di crack - sta scavando in cerca di qualcosa da usare per pulire la canna con cui fuma il crack, quando finalmente gli capita tra le mani "una specie di stecco, tutto dritto e liscio". È una matita, che da quel momento in poi porterà con sé ovunque andrà. "Così comincio a portarmela sempre dietro questa matita finché, un giorno che me ne sto lì seduto nel mio buco senza niente da fumare, senza niente da fare, la tiro fuori per vedere quanta roba c'è rimasta attaccata - perché quando non hai più un cazzo ti riduci anche a questo - e di colpo mi accorgo che è una matita. Voglio dire, una matita vera, con la mina e tutto il resto, una di quelle cose che si usano per scrivere". Ed è proprio questo che comincia a fare. "Non ci metto molto a dimenticarmi di tutto il daffare che mi davo per racimolare i soldi di una dose e me ne sto lì a riempire fogli su fogli, come un pazzo, carico di adrenalina, con il cuore a mille e le mani che mi tremano. Sono talmente su di giri che quasi me la faccio addosso. È come farsi una dose. La stessa cosa."

In Grand Central Winter Stinger parla di questa sua duplice dipendenza, dal crack e dalla scrittura, e di quanto in là si sia spinto per soddisfare l'uno e l'altra. Ma né alla discesa agli inferi, né tanto meno alla lunga risalita in superficie sembra dedicare troppo spazio. Dipinge invece un quadro fedele della vita di strada in sé, una vita che, per quanto terrorizzi, si lascia anche apprezzare. C'è molta durezza, molto distacco nel modo in cui Stringer dà vita ai suoi ritratti di ladri, imbroglioni, drogati e spacciatori, ma alla radice si intravede una grande compassione. Una rabbia onesta traspare da Grand Central Winter, ma nessuna posizione precisa dal punto di vista politico. "La politica non rappresenta mai il vero problema", scrive Stringer nella rubrica "Ask Homey", all'interno di Street News, il giornale di strada di New York. "Sono gli animi ad esserlo."


Intervista

Conversazioni di strada: un'intervista a Lee Stringer
Lee Stringer viveva da clandestino nella sede del giornale di strada di cui era direttore quando gli fu offerto il primo contratto per la pubblicazione. Da dodici anni si drogava col crack e non aveva una casa. Grand Central Winter, il memoir della sua vita di strada, ha fatto di lui un caso letterario e, cosa ancora più importante, lo ha spinto a uscire definitivamente dal tunnel della droga.

A maggio Stringer è stato al Writer's Festival di Sidney per parlare del suo secondo memoir Sleepaway School, in cui ricorda il suo soggiorno in "una specie di riformatorio" quando era ancora un ragazzino. Durante il tragitto si è fermato a Readings Hawthorn per incontrare Martin Hughes, direttore di The Big Issue.

Martin: Hai affermato che scrivere è diventata una specie di droga per te, con effetti simili a quelli del crack. La scrittura ha davvero sostituito il crack?

Lee: Penso che la scrittura mi abbia permesso di colmare quel vuoto che qualunque tossicodipendente cerca in qualche modo di colmare, non ha importanza quale sia la sostanza di cui si rende vittima nel farlo.

Martin: Alla morte di tuo fratello ti sei ritrovato per strada senza neanche rendertene conto, e questa è una delle cose che più colpiscono del tuo libro. Ce ne puoi parlare, giusto per far capire alla gente quanto sia facile cadere in questa spirale?

Lee: In realtà, la situazione in cui mi sono trovato in seguito alla morte di mio fratello è stata il risultato di qualcosa che già esisteva, quell'incredibile vuoto di cui parlavo prima. Quando è morto mio fratello ho cominciato a pensare "potrei andarmene domani stesso e che cosa avrei concluso? a cosa sarebbe valso il tempo che ho trascorso qui?" Credo che quell'evento, verificatosi a breve distanza dalla morte di mio padre e da quella improvvisa del mio socio, abbia brutalmente risvegliato quel senso di vuoto che giaceva nascosto dentro di me, e con esso il desiderio di colmarlo: ecco perché, dopo aver sperimentato gli effetti della cocaina, me ne sono sentito attratto.

Martin: Hai anche raccontato di aver provato un senso di liberazione quando sei finito per strada. Ti sembrerà una domanda stupida, ma ti manca mai quella sensazione?

Lee: Non credo che dipenda dal vivere al chiuso o all'aperto. Quel senso di liberazione era legato piuttosto al fatto che la vita che conducevo prima non era vita vera. Erano gli anni ottanta, quando contava solo quello che avevi, la marca dei vestiti che indossavi, la strada in cui vivevi, la scuola in cui studiavi, la gente che conoscevi. Il tuo bagaglio di cose con cui presentarti al mondo. Ma non funzionava mai. Credo che i dodici anni che ho trascorso per strada siano stati per me una specie di prova del fuoco perché scoprissi chi ero veramente. Una delle lezioni che ho imparato è che puoi scegliertelo il modo di camminare su questa terra, e devi accettarne le conseguenze, buone o cattive che siano. Lo trovo molto liberatorio, questo.

Martin: Qual è stato il ruolo del giornale newyorchese Street News nel farti arrivare dove sei adesso?

Lee: Street News ha avuto un ruolo davvero fondamentale. Avevo un passato di addetto al marketing in una società e la mia vita ruotava tutta intorno al superfluo - sai, il tipo di ufficio in cui lavori, il titolo che possiedi, i vestiti di Armani. Se mi presentavo a un appuntamento con un completo da ottocento dollari e chi dovevo incontrare ne indossava uno da tremila mi sentivo a disagio. Quando vivevo per strada, invece, mi ha sorpreso molto vedere che - anche se eravamo ancora negli anni ottanta - un posto riuscivi sempre a conquistartelo se avevi qualcosa di vero e di importante da dire. È stato proprio vendendo Street News in metropolitana che l'ho capito. La gente ti ascoltava, prestava attenzione a quello che dicevi, anche se non indossavi un completo di Armani. Ma è stato trovare un riscontro a quello che scrivevo per Street News a rappresentare il vero punto di partenza perché mi dicessi "chiunque tu sia, vai avanti così che vai bene". Fregatene di tutto quello che non è indispensabile, dello stipendio che ricevi e di tutte le altre stronzate. Se è vero che si vive una volta sola, tanto vale farlo con quello che hai dentro, piuttosto che con quello che gli altri si aspettano da te.

Martin parla del conflitto che esiste tra il desiderio di dare alla gente l'occasione di vedersi pubblicati su The Big Issue e l'esigenza di garantire sempre la qualità della rivista.

Lee: Sono perfettamente d'accordo. Quando dirigevo Street News pensavo che non si rendesse un buon servizio a nessuno autorizzando la pubblicazione di un autore solo ed esclusivamente in virtù del fatto che non aveva fissa dimora. Pubblicare brutte poesie, articoli incomprensibili, o qualunque altra cosa che non meriti di essere pubblicata è il modo migliore perché i lettori smettano di interessarsi alla questione dei senzatetto. È controproducente per tutti. Il giornale di strada può o sfruttare chi lo vende, oppure conferirgli potere. Lo sfrutta se parte dal presupposto che la gente comprerà il giornale proprio perché la persona di strada che lo vende ha bisogno di aiuto. Ma conferire potere a qualcuno vuol dire anche dargli quello che già vuole. The Big Issue mi piace soprattutto per il modo in cui si sforza di essere una lettura indipendente che i senza tetto hanno il potere di vendere.
Martin: Dopo il successo che hai ottenuto come scrittore e come uomo, vincendo finalmente la tossicodipendenza, ti è mai capitato di sentirti giù?

Lee: Ricordo di essermi ritrovato a partecipare a uno spettacolo in televisione proprio quando camminare per le strade di una grande città per me voleva dire incontrare sempre qualcuno che mi riconosceva. Appena sono entrato nella camera d'albergo, mi è venuta una terribile depressione. Era un po' come se mi fossi aspettato che scrivere un libro mi avrebbe colmato, mi avrebbe cambiato la vita. E credo che in realtà sentissi che le mie aspettative erano state deluse. Non capivo cosa ci avessi guadagnato, tutto lì. In un certo senso, si potrebbe quasi affermare che, per l'animo umano, soldi e popolarità siano altrettanto pericolosi quanto la povertà assoluta.
Entrambe le cose possono metterti a dura prova psicologicamente.

Martin: C'è un'esperienza in particolare della vita di strada che ti ha aiutato a gestire la tua nuova posizione di autore di fama internazionale?

Lee: Non è che la mia vita adesso, a parte questo preciso momento, sia davvero quella di un autore di fama internazionale. Ho lasciato la metropoli per trasferirmi in una città piccola, dove la gente sa che scrivo libri e io passo il tempo a scendere dal piedistallo su cui provano di continuo a farmi salire. Cerco di evitare di dire "sono uno scrittore". Dico piuttosto che scrivo libri. Non c'è molta differenza, ma per lo meno evito di pormi domande del tipo "ora che sono uno scrittore, che cosa devo fare? uno scrittore indosserebbe una camicia così?" Se invece sono solo uno che scrive libri tutto questo me lo risparmio.




(Tratto da "The Big Issue". Traduzione di Federica Merani)





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