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  ECONOMIA DI CANDELE   
 Giuseppe Berto
 
 
 Gli ascari 
                (1) della squadra d'avanguardia camminavano sparsi e distratti 
                fuori dalla carovaniera, col fucile buttato di traverso sulle 
                spalle, tra i denti bianchi un ramoscello che masticavano continuamente. 
                Nel paesaggio vasto e desolato sotto il sole, andavano senza parlare 
                né cantare, anch'essi come assorbiti dalla calda sonnolenza 
                pomeridiana. Solo di quando in quando in un improvviso ammucchiarsi 
                di uomini nasceva un mormorio confuso ed eccitato, e ciò 
                significava che qualcuno aveva scoperto tra l'erba secca un vaso 
                di miele o di quell'aspra birra abissina chiamata teg. Allora 
                il graduato più vicino, muntaz o buluc basci, 
                interveniva gridando, e magari col curbasc (2) alzato, 
                e gli ascari buttavano giù in fretta quanto più 
                teg e miele potevano, e rompevano il vaso d'argilla prima di riprendere 
                correndo il loro posto nello schieramento. Teg e miele 
                si spargevano a terra: niente doveva rimanere indietro.
 Era la terza settimana che andavano per l'altipiano in spedizione 
                punitiva contro i villaggi che aiutavano i ribelli, ma non avevano 
                ancora incontrato anima viva. Gli abitanti erano scappati, tirandosi 
                dietro il bestiame sui monti o nei profondi crepacci dei torrenti 
                dopo aver nascosto nei campi i vasi di teg e di miele. I tucul 
                dei villaggi erano rimasti vuoti, con qualche povero attrezzo 
                da lavoro, troppo pesante per portarlo in salvo. Gli ascari prima 
                arrivati davano fuoco ai tetti di paglia, e poco dopo tutto era 
                in fiamme. I cristiani copti risparmiavano le chiese, ma poi vi 
                passava qualche musulmano e bruciava anche quelle. Così 
                il XXV battaglione Coloniale, in operazioni di polizia (3) nell'altopiano 
                del Beghmeder-Lastà, passava, prima l'avanguardia, poi 
                il grosso che marciava sulla carovaniera insieme alle salmerie, 
                infine la retroguardia, lasciandosi indietro alte colonne di fumo 
                e una grossa nuvola di povere, che restavano a lungo nell'aria 
                calda senza vento.
 Il tenente che comandava il plotone di testa si fermò, 
                dopo che ebbe raggiunta la piatta sommità del colle. Poche 
                centinaia di metri più avanti c'era il paese: una vasta 
                fungaia di tucul tra il verde intatto e inatteso degli 
                eucaliptus, e due o tre grandi chiese sulle alture, rotonde, con 
                gli alti muri di sassi. Un paese importante, segnato in grosso 
                anche sulla carta al milione. Lì egli diede ai suoi uomini 
                l'ordine di fermarsi secondo le istruzioni ricevute.
 Le squadre d'avanguardia si sistemarono a protezione, svogliatamente, 
                tanto sapevano bene che non c'era pericolo. Sulla carovaniera, 
                uomini e muli si vennero ammassando, un po' in disordine, senza 
                chiara distinzione di compagnia. Come la sosta si prolungava, 
                molti ascari si sedettero per terra. Qualcuno tirò fuori 
                dal tascapane una canna bucata e cominciò a soffiarvi dentro 
                una melodia insistente, di poche note. Gli ufficiali arrivarono 
                e lasciato il muletto all'attendente, si riunivano in gruppo. 
                Facce bruciate dal sole, e anche i più giovani avevano 
                gli occhi sprofondati in una quantità di rughe, per difendersi 
                dalla luce. Guardavano verso il verde degli eucaliptus, col desiderio 
                di raggiungerlo, e ci fu chi disse qualche grossolana spiritosaggine 
                nei confronti del Maggiore Comandante, che si era allontanato 
                insieme al suo Aiutante Maggiore per studiare chissà che 
                cosa, tra carta e paesaggio. Era noto che il Maggiore, in passato, 
                aveva preso più di un madornale abbaglio con le carte geografiche, 
                tuttavia si ostinava a consultarle, in ogni occasione, con risultati 
                incerti. Poco dopo egli mandò l'ordine di scaricare le 
                salmerie sul posto e gli ufficiali perdettero definitivamente 
                la speranza di andarsi a mettere con la tenda sotto un albero. 
                Sempre così: per ragioni tattiche, affermava il Maggiore. 
                Egli era del parere, infatti, che un attacco viene sempre quando 
                uno meno se lo aspetta.
 Sulla gobba del colle si accese l'animazione confusa di ogni arrivo. 
                Bisognava preparare le postazioni per le armi automatiche, condurre 
                i quadrupedi all'abbeverata e al pascolo, procurarsi l'acqua e 
                la legna per fare il tè e cuocere la burgutta di farina. 
                Un gruppo di ascari si appartò per macellare festosamente 
                una decina di buoi razziati chissà dove durante la marcia, 
                e subito il cielo fu pieno di una quantità di grossi uccelli 
                che volavano in maestosa attesa, alti sopra il sangue. Altri gruppi 
                s'erano messi ad alzare le tende degli ufficiali e la tenda grande 
                a sedici teli, che serviva da Comando Battaglione e da mensa ufficiali. 
                Il sottotenente medico che aveva l'incarico di direttore di mensa, 
                sovrintendeva a quell'operazione, rassegnato a vedere sorgere 
                la tenda storta, come sempre. Vicino a lui, il tenente Aiutante 
                Maggiore, seduto sul cofano scrittoio, compilava alcuni stampati. 
                Gli altri ufficiali, a gruppi di compagnia, erano andati a riconoscere 
                il terreno di competenza. Il sole, abbassandosi, faceva più 
                scuro il verde degli eucaliptus, e non si vedeva fumo salire dai 
                tetti dei tucul. Anche da lì, evidentemente, la 
                popolazione era scappata ma il paese era da risparmiare, perché 
                così diceva l'ordine di operazioni diramato dal Comando 
                Truppe. Tra poco, non appena fosse tramontato il sole, si sarebbe 
                levato il vento dell'est. Vento freddo, come ogni sera.
 Tornando dalla ricognizione del terreno, egli andò dritto 
                alla sua tenda. C'era la branda fatta, senza lenzuola, ma col 
                pigiama messo sotto le coperte, perché non prendesse umidità. 
                Sulla cassetta Nasir aveva preparato il libro da leggere e la 
                candela, l'ultima mezza candela rimasta. Non serviva ancora la 
                candela per leggere, e comunque di leggere egli non aveva alcuna 
                voglia. Si sedette sulla branda, pensoso se togliersi o no gli 
                stivali. Era sicuro che, se se li fosse tolti, subito il Capitano 
                o qualcun altro lo avrebbe mandato a chiamare, e se li sarebbe 
                dovuti rimettere. Presso l'ingresso della tenda c'era il catino 
                e il bidone dell'acqua. Era un bravo attendente, Nasir, ma lui 
                non aveva nemmeno voglia di lavarsi. Guardava fuori, piegato nella 
                sua stanchezza. Gli ascari, a gruppi di quattro o cinque stavano 
                attorno ai fuochi per cuocersi il tè e la burgutta. Più 
                lontano, sul limite del campo, c'era una sentinella immobile, 
                con la baionetta inastata sul fucile. Più lontano ancora 
                si scorgeva il paese, i tucul già nascosti nell'ombra 
                e il sole basso che passava coi raggi attraverso le foglie degli 
                eucaliptus. Poteva anche essere bello, tutto ciò. Stette 
                a guardarlo a lungo, col desiderio sciocco di ricordarsene poi 
                per sempre, ricordarsi di quel particolare luogo e momento, per 
                tutta la vita, anche quando fosse tornato a casa, in un mondo 
                tanto diverso e lontano. Cercava di suscitare in sé una 
                commozione, per rendere poi più facile e individuabile 
                il ricordo. Una sera, tanti anni fa, davanti ad un paese chiamato 
                così e così, stanco dopo una lunga giornata di cammino 
                sull'altipiano del Beghmeder- Lastà, io ho pensato questo 
                e questo, e c'era il sole basso che passava tra gli eucaliptus. 
                Non gli veniva niente da pensare, niente di importate almeno, 
                e di sicuro non se ne sarebbe ricordato. Un mese fa, ad esempio. 
                Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarsi dove si fosse 
                trovato e cosa avesse visto un mese fa. Neppure di oggi sarebbe 
                rimasto nulla, era la fine di una giornata come tante: si arrivava, 
                si piantava la tenda, e quella era la casa in cui si sostava per 
                una notte, in un luogo sconosciuto. La mattina presto si ripartiva 
                per andare altrove, e tutto ciò che si era visto e pensato 
                andava ad accumularsi in un passato senza dimensioni, come giorni 
                trascorsi in un collegio o in una caserma. Del resto, doveva ammettere 
                che l'attrattiva più pericolosa di quella vita era appunto 
                la mancanza di dimensione, dimensione anche morale, naturalmente, 
                e quindi mancanza di responsabilità: lasciarsi vivere, 
                da un giorno all'altro.
 Chiamò l'attendente che stava a portata di voce, intorno 
                al fuoco più vicino. "Nasir", gli disse, "qua 
                bisogna trovare una donna".
 L'ascari fermo sulla soglia della tenda ebbe un sorriso o una 
                smorfia che gli scoprì i denti. "E va bene", 
                disse.
 "Vedi che non sia troppo brutta, e possibilmente non malata".
 "E va bene, signor tenente", ripetè l'ascari, 
                e si allontanò.
 Era un bravo attendente, Nasir, e sapeva non mostrare se una cosa 
                gli faceva piacere o dispiacere, a parte il fatto che la cosa 
                poteva benissimo non fargli né piacere né dispiacere. 
                Il suo padrone dava ordini e lui obbediva, la sua ragione almeno 
                temporanea di vita essendo appunto fare ciò che il padrone 
                gli chiedeva.
 Tornò dopo un'ora, quando era già buio e avevano 
                suonato per la mensa. "Non ho trovato, signor tenente", 
                disse.
 Sentì, senza ombra di dubbio che non gliene importava niente. 
                Tuttavia disse, un po' scherzando: "Come, Nasir? Non sei 
                neanche capace di trovare una donna per il tuo ufficiale?"
 "Tutta gente scappata, signor tenente".
 "Forse torneranno. Avranno ben visto che non vogliamo fargli 
                del male".
 L'ascari ebbe un gesto di rassegnazione e se ne andò borbottando 
                nella sua lingua.
 Egli uscì per recarsi a cena. Il vento dell'est si era 
                levato, freddo e continuo, non a raffiche. C'era una quantità 
                i fuochi accesi, dentro il cerchio del campo, e da qualche parte 
                gli ascari cantavano battendo le mani a tempo.
 Alla mensa avevano già cominciato a mangiare, seduti sui 
                cofani delle munizioni, intorno alla tavola fatta di cassette 
                sovrapposte. C'era il Maggiore Comandante del Battaglione, al 
                centro, e poi a destra e a sinistra in ordine di grado e di anzianità, 
                gli ufficiali: i capitani comandanti, le compagnie, i tenenti, 
                i sottotenenti. Il suo capitano lo guardò con rimprovero 
                per il ritardo, ma non disse nulla. Anche lui si mise a mangiare 
                con serietà, laboriosamente, la carne gommosa delle bestie 
                appena macellate. Al paletto centrale della tenda era legato il 
                lume a petrolio del comando e si scuoteva senza sosta come la 
                tenda era mossa dal vento.
 Sotto gli occhi del buluc basci anziano, i quattro ascari 
                camerieri, in giacca bianca e guanti bianchi, andavano e venivano 
                senza rumore coi piedi nudi. C'erano bistecche, fegato, cervello 
                e rognoni, finché uno ne voleva. Dopo la carne portarono 
                frutta secca, mandorle e noci e dopo il caffè incerti bicchieri 
                di stagno che bruciavano la bocca e avevano una puzza particolare. 
                Anche di caffè ce n'era finché uno ne voleva, ma 
                soltanto il primo bicchiere era zuccherato perché lo zucchero 
                scarseggiava e chissà mai quando il Battaglione sarebbe 
                arrivato ad una sussistenza per prelevarne dell'altro. Così 
                stavano a bere caffè amaro e a chiacchierare, sempre i 
                soliti discorsi sulle operazioni di polizia, sulle informazioni 
                politiche, sugli aumenti delle indennità e degli stipendi, 
                sulle donne bianche e negre. Uomini messi insieme dal caso, fra 
                i quali raramente si stabiliva una vera intimità. In un 
                certo senso, era il lume a tenerli uniti in quella tenda, per 
                quanto fosse un povero lume traballante. Ma tutti erano a corto 
                di candele e perciò le risparmiavano, rimanendo al Comando 
                fino all'ora di dormire. Egli però si alzò e fece 
                un rapido saluto verso la comunità dei superiori, sperando 
                che nessuno lo notasse.
 "To', scommetto che ha trovato una donna!", esclamò 
                invece l'Aiutante Maggiore.
 Egli si limitò a fare un cenno per negare.
 "Dopo veniamo anche noi!" gli gridò dietro il 
                medico. Lui lasciò ricadere il lembo della tenda e mosse 
                i primi passi incerti nel buio. Molti fuochi si erano spenti e 
                gli ascari non cantavano più. Camminò verso la sua 
                tenda, ma non col proposito di andare a dormire. Sarebbe invece 
                uscito dal campo, per camminare controvento sulla gobba del colle, 
                nell'oscurità eccitante con le grida degli sciacalli, e 
                lamento di iene, e presentimento di un pericolo vicino. Forse 
                la commozione gli sarebbe venuta camminando tutto solo fuori dal 
                campo.
 L'attendente Nasir era rimasto vicino al fuoco e lo raggiunse, 
                vedendolo passare. "Trovato, signor tenente", disse.
 Era chiaro, anche se ormai alquanto sconcertante, che aveva trovato 
                una donna. Rinunciò pertanto alla passeggiate e all'emozione 
                che avrebbe potuto ricavarne. In fondo, anche da una donna era 
                possibile ricavare un'emozione, benché poche donne ricordasse 
                di tante che ne aveva avute. Queste donne negre, naturalmente.
 Accese un fiammifero, entrando nella tenda e diede fuoco alla 
                candela. Il vento penetrava dalle fessure, gonfiava i teli e li 
                sbatteva, e la fiamma piegandosi da una parte e dall'altra consumava 
                rapidamente la cera.
 Cercò dentro la cassetta qualcosa per fare un riparo intorno 
                alla mezza candela, sarebbe durata almeno un'ora, avendone buona 
                cura.
 Soltanto dopo prestò attenzione alla donna. Stava seduta 
                per terra, con la schiena appoggiata al ferro della branda, la 
                testa interamente coperta da una futa di un bianco molto sporco. 
                Di solito, quando venivano dagli ufficiali, queste donne si mettevano 
                veste e futa (4) di bucato, ma questa qui chissà mai dove 
                era stata pescata. "Ancì", la chiamò.
 La figura non si mosse né rispose.
 "Ehi, ancì, come diavolo ti chiami?", 
                insisté appoggiandole una mano sulla testa. Attraverso 
                la tela percepì soltanto il folto dei capelli. Aveva il 
                solito odore di burro rancido, di fumo e di sterco di animale. 
                Ma non era un odore nauseante. In principio, nei primi mesi d'Africa, 
                sì, se ne ricordava. Ora invece a quell'odore associava 
                immediatamente il possesso di una donna.
 "Ancì, man semmà?", le chiese di 
                nuovo, con le poche parole amariche che sapeva.
 Neanche ora essa rispose. Un po' irritato, egli le scostò 
                con forza la futa dalla testa. Vide soltanto un ammasso di capelli 
                crespi e corti, poiché essa teneva il viso ostinatamente 
                basso. Le mise una mano sotto il mento e la costrinse ad alzarlo. 
                Il volto, non molto scuro, era minuto e regolare, con gli occhi 
                chiusi e le labbra serrate in un'espressione di spaventata incertezza. 
                Sembra una bambina, pensò teneramente. Le domandò 
                quanti anni avesse, ma essa rimase muta. Del resto, a parte che 
                quella non doveva conoscere neanche una parola d'italiano, la 
                domanda era in ogni caso stupida, perché nessuno sapeva 
                la propria età in quei paesi. Abbassò nuovamente 
                la testa, non appena libera dalla pressione della mano di lui, 
                ed egli decise che in un modo o nell'altro bisognava fare amicizia.
 Cercò nella cassetta del cioccolato e gliene porse un pezzetto, 
                mettendoglielo proprio sotto il naso. Essa lo accettò, 
                porgendo con un gesto grazioso le due mani unite a coppa, ma poi 
                rimase con il cioccolato in mano e la testa bassa, e lui dovette 
                spiegarle a gesti che quella roba si mangiava, e lei ancora diffidente 
                se ne mise un pezzo in bocca e fece due o tre inchini, e poi anche 
                sorrise, per far vedere che la roba le piaceva. Bene, avevano 
                fatto amicizia, e frattanto lui aveva visto che gli occhi erano 
                grandi e belli, e la bocca bella, e le mani piccole e gentili, 
                e nel complesso la ragazza era forse la più bella che gli 
                fosse mai capitata.
 Aspettò che finisse di mangiare il cioccolato, poi la prese 
                per le braccia e la fece alzare in piedi. Era piccola di statura, 
                fin troppo piccola, benché a pensarci bene ciò fosse 
                in armonia con la sua faccia da bambina. Le disse di spogliarsi, 
                ma siccome lei non si muoveva, la spogliò lui stesso dopo 
                averle sciolto la cintura della veste. Aveva un corpo minuto, 
                come c'era da aspettarsi, e magro, con tutte le costole che si 
                vedevano, e il seno piccolo, appena pronunziato. In sostanza, 
                forse non arrivava neanche a dodici anni, ma in fin dei conti 
                non era colpa sua se una bambina di dodici anni faceva la prostituta, 
                e poi quelli erano paesi particolari e gente particolare, sarebbe 
                stato ridicolo avere scrupoli, tanto più che, così 
                nuda, la piccola era più che mai graziosa. Essa stava ritta 
                in piedi come lui l'aveva messa, senza pudore né impudicizia, 
                ma piena di freddo e forse anche con un po' di paura. Le fece 
                indossare la giacca del pigiama e non poté far a meno di 
                ridere perché sembrava ancor più bambina, con la 
                giacca che le arrivava sotto i ginocchi e le braccia scomparse 
                con le mani e tutto dentro le maniche. Anche lei si guardava, 
                e probabilmente anche lei avrebbe riso, se avesse avuto un po' 
                meno freddo, o un po' meno paura. Controllò se Nasir le 
                avesse fatto lavare i piedi prima di introdurla nella tenda, poi 
                le disse di mettersi in quella specie di cuccia da cani che era 
                la sua brandina da campo. Dovette spiegarglielo a gesti, perché 
                lei non capiva proprio nulla. Infine lui stesso si coricò 
                e subito spense la candela: bisognava fare economia.
 La 
                candela, la riaccese poco dopo, chiamando ad alta voce Nasir. 
                La piccola stava nella branda con gli occhi spalancati, con senso 
                di colpa e spavento, non privo di meraviglia, perché indubbiamente 
                nella condotta dell'uomo bianco c'era qualcosa che essa non capiva. 
                Quando l'ascari si presentò, egli lo fece entrare nella 
                tenda. "Che donna hai portato, Nasir?", gli disse. "Questa 
                è muta".
 "Muta io non sapere", rispose l'ascari.
 "Muta significa che non parla. Questa non parla, e non capisce 
                niente. Forse anche sorda".
 Nasir fece un suono di dispiacere con la bocca. "Questa non 
                stare amara, stare galla(5) : sua lingua molto diversa".
 Egli guardò la ragazzetta, quasi sperando che, essendo 
                galla e non amara, le cose potessero cambiare. "Si può 
                sapere almeno come si chiama?", chiese verso Nasir.
 L'ascari ebbe con la ragazzetta una conversazione piuttosto complicata, 
                con ritorni e impuntature. Infine spiegò:"Io non sapere 
                molto questa sua lingua, ma suo nome si chiama Lemtà".
 Lemtà era un bel nome. "Bene, Nasir", disse. 
                "Lemtà è un bel nome, ed anche lei è 
                bella. Ma è troppo piccola, troppo bambina, capito?".
 L'ascari alzò le spalle con rassegnazione". Eh, questa 
                sola trovato".
 "Ma questa è vergine", egli disse indispettito. 
                " Capisci cosa vuol dire vergine? Non ha mai conosciuto un 
                uomo".
 L'ascari lo guardò, offeso dal suo dispetto. "Bene, 
                no?", ribatté vivacemente. "Così non stare 
                malata".
 Egli dovette riconoscere che, almeno da quel punto di vista, Nasir 
                aveva ragione. "Ora va a dormire", gli disse. "Domattina 
                portami il caffè alle cinque".
 La piccola stava nella branda, e pareva in attesa, ora che l'attendente 
                se n'era andato, un'attesa che era anche fatta di paura. "Lemtà", 
                egli le disse con ogni possibile dolcezza. "Lemtà".
 Non ci fu, nella piccola, alcun cambiamento d'espressione o d'atteggiamento. 
                Non aveva forma di difesa, all'infuori della sua umile paura. 
                Ma lui non se la sentiva, in ogni caso non se la sentiva. E si 
                affrettò a spegnere la candela.
 Dovette 
                riaccenderla quasi subito, perché arrivò il dottore. 
                E non era solo: s'era tirato appresso l'Aiutante Maggiore e Gaeta, 
                il tenente effettivo che comandava la terza Compagnia e spesso 
                assumeva, nei confronti dei subalterni anche pari grado, un'antipatica 
                autorità da superiore. Lemtà, prima che quelli entrassero, 
                aveva afferrato il lembo delle coperte e si era nascosta tutta 
                sotto."Lo sapevo, che avevi pescato una donna", disse il dottore.
 "Zitto, zitto, con quell'aria da fesso", disse l'Aiutante 
                Maggiore, col tono di fargli un complimento.
 Il tenente Gaeta, invece, s'era avvicinato alla branda e voleva 
                tirar via la coperta, ma la donna con le piccole mani strette 
                la tratteneva. Il dottore rideva. Gaeta impaziente, cominciò 
                a rimproverare la donna, in aramaico.
 "Inutile parlare aramaico. Non capisce: è una galla", 
                egli disse, assurdamente sperando con ciò di fare qualcosa 
                che potesse essere di aiuto alla piccola.
 "Buone, le galla", disse il dottore con entusiasmo". 
                Ne ho tenuta una per quindici giorni, quand'ero a Cobbò 
                col XX".
 Gaeta d'un tratto si spazientì con quella che continuava 
                a trattenere le coperte con forza. Diede uno strappo e la scoprì 
                fino all'inguine. Essa si portò subito le mani sugli occhi. 
                Nessuno si aspettava di trovarsi davanti una bambina.
 "Troppo piccola", disse l'Aiutante Maggiore, deluso.
 "Fa schifo: sembra un ragno", rincarò il dottore.
 Ma Gaeta non era di quel parere. "Voi non capite niente di 
                donne indigene", disse autoritariamente. "Queste sviluppano 
                presto. Altro che ragno. Mi meraviglio di te, dottore. E' un bocconcino 
                d'oro, un fiore appena sbocciato. Peggio per voi se fate gli schizzinosi. 
                Io me la porto in branda".
 L'aveva presa per un braccio e tirava, per forzarla ad alzarsi, 
                mentre la piccola tentava di resistere. Gaeta era il coloniale 
                più anziano, al battaglione, meglio di lui nessuno sapeva 
                come andavano trattati gli ascari e le donne negre, perciò 
                sarebbe stato sciocco e inutile intervenire ora in soccorso della 
                piccola. Tuttavia era anche da vigliacchi lasciarsela portar via 
                così, in un certo senso lo era, e comunque egli sentiva 
                di dover fare almeno un tentativo. "Aspetta", disse 
                afferrando il braccio di Gaeta. " Io non l'ho toccata: non 
                è mai stata con un uomo, è vergine".
 Gaeta spostò su di lui l'attenzione e lo guardò, 
                dapprima incredulo, poi ridendo, volgarmente.
 "Non l'hai toccata? E che te la tenevi qui a fare?".
 "Niente. Pensavo di mandarla via" egli disse. "Stavo 
                per chiamare l'attendente, che se la venisse a prendere".
 "Bravo, così se la pigliava lui, e tu ci facevi proprio 
                una bella figura. Ma quanto tempo vi ci vuole a voi per imparare 
                a stare in colonia?".
 Ora riafferrò la piccola con forza e la tirò per 
                il braccio, fino a farla alzare. Egli non disse nulla, benché 
                assurdamente crescesse in lui il senso di essere un vigliacco, 
                in tutti i modi, perché se accettava che Gaeta si prendesse 
                la piccola, allora tanto valeva che se la prendesse lui prima, 
                come era suo diritto. Invece lasciava che si rivestisse, e la 
                guardava, e non le vedeva il viso, solo la rassegnazione dei gesti, 
                pur sforzandosi di restare in dubbio che si trattasse di rassegnazione. 
                In fin dei conti, era del tutto arbitrario attribuire a quella 
                ragazzetta pensieri e sentimenti che si sarebbero potuti attribuire 
                ad una simile ragazzetta dalla pelle bianca, e dai capelli lisci, 
                e provarne compassione era una cosa del tutto fuori posto. Meglio 
                salvare la faccia davanti a Gaeta, invece, e davanti all'Aiutante 
                Maggiore e al dottore che stavano a guardare divertiti come lui 
                si lasciava fregare la ragazza. "Gaeta", disse con forza. 
                "Io la ragazza te la do. Ma in cambio voglio una candela."
 "Mannaggia, mi prendi per la gola: ne ho soltanto due".
 "E io ho soltanto il rimasuglio che vedi" disse indicando 
                la cassetta.
 Non spense, dopo che quelli se ne furono andati. Non valeva la 
                pena di spegnere: la fiamma stava morendo da sola, in una piccola 
                pozza di cera liquefatta.
 Dormiva, non sapeva da quanto, quando l'attendente di Gaeta venne 
                a riportargli la ragazza. "Detto signor tenente dare questo", 
                disse l'ascari tenendo qualcosa nel buio.
 Egli incontrò la mano dell'ascari e prese la candela: non 
                pensava che Gaeta avrebbe mantenuto la promessa.
 Accese dopo che l'ascari fu uscito, fissando la nuova candela 
                sulla cera di quella di prima. La ragazza s'era seduta per terra, 
                come quando lui era arrivato dalla mensa, con la schiena contro 
                il ferro della branda. Non s'era coperta la testa, ma la teneva 
                abbassata, nascondendo il viso. Cosa pensasse, era impossibile 
                saperlo. In ogni caso, per loro non era una cosa tanto importante, 
                almeno così dicevano coloro che avevano esperienza di cose 
                coloniali. Gaeta, per esempio. E del resto, se non l'avesse fatto 
                Gaeta, l'avrebbe fatto qualcun altro, forse peggio. Stese una 
                mano ed accarezzò la piccola sulla testa, cercando di caricare 
                il gesto di tenerezza. I capelli non erano troppo unti, e fossero 
                stati più unti sarebbe stato meglio, in quel momento, benché 
                non avesse assolutamente colpe da espiare, e in ogni caso fosse 
                assolutamente insensato espiarle sporcandosi una mano con il burro 
                rancido. Faceva passare i capelli sotto la palma, meccanicamente, 
                con un movimento che pareva aiutasse a sopportare i pensieri. 
                Poi ebbe voglia di guardarla, per capire qualcosa.
 Ancora le fece alzare il viso, come aveva fatto prima, e la chiamò 
                fino a farle alzare anche gli occhi, ed ebbe davanti un volto 
                dall'espressione indefinibile, cui si poteva attribuire tutto 
                ciò che faceva piacere: indifferenza o disperazione, terrore 
                o meraviglia. Le sorrise, in un tentativo d'intesa, e lei non 
                rispose. Allora, piegandosi fuori dalla branda, armeggiò 
                dentro la cassetta per prendere dei talleri(6) e del cioccolato, 
                tutto il cioccolato che gli restava. Essa accettò con un 
                inchino ed annodò le monete d'argento nella cintura di 
                tela, insieme a quelle che le aveva dato Gaeta. Il cioccolato 
                invece lo tenne in mano e restò a guardarlo benché 
                ormai sapesse che quella roba si mangiava.
 Lui non sapeva più che fare. Aveva fatto, forse, tutto 
                ciò che si poteva, ma sentiva che non bastava, e confusamente 
                una sorta di tenerezza cresceva dentro di lui, già staccata 
                dalla compassione. Comunque, ciò che aveva fatto Gaeta, 
                egli non l'avrebbe fatto. Ma accogliere la bambina accanto a sé 
                nella stretta branda, e scaldarla e accarezzarla dolcemente, un 
                po' come lui bambino nel letto grande di sua madre, questo sì 
                l'avrebbe voluto, soltanto questo.
 Alla bambina spiegò, a gesti, che doveva spogliarsi e tornare 
                nella branda. Essa si rialzò, docile. Depose il cioccolato 
                sulla cassetta e poi guardò lui, interrogativamente, mentre 
                si disponeva a togliersi la veste. Era disposta a tutto, si capiva, 
                forse perché lui le aveva dato dei talleri, o per il colore 
                diverso della pelle, per cui uno era padrone e l'altro servo. 
                Ma con che animo stesse per farlo, questo non si capiva. Con acuta 
                amarezza percepì che proprio non c'era modo d'intendersi, 
                con quella gente, né a lui bastava essere padrone per pochi 
                talleri o per il diverso colore della pelle. La fermò con 
                un gesto, poi prese una coperta dalla branda e gliela porse, facendole 
                cenno di mettersi a dormire per terra. Essa si inchinò 
                e obbedì con la stessa pronta sottomissione con la quale 
                avrebbe fatto qualsiasi altra cosa. E subito egli spense la candela, 
                ma prima guardò l'orologio: erano le tre passate, una notte 
                persa stupidamente.
 Quando furono le cinque in punto, Nasir arrivò col caffè 
                e dovette chiamare più volte il suo tenente prima di potergli 
                affidare con qualche probabilità di buona riuscita il bicchiere 
                di caffè bollente. Appena fu in grado di ricordarsi, egli 
                guardò per terra. La piccola non c'era più, naturalmente. 
                Nasir stesso aveva certo provveduto ad allontanarla con discrezione, 
                prima che il campo fosse sveglio. Cercò invano di ricordarsi 
                il suo nome, un nome dolce, che di sicuro nella loro lingua aveva 
                un significato gentile, ma lui non lo sapeva. Ad ogni modo, se 
                n'era andata. Con il cervello ancora intorpidito, egli beveva 
                il caffè, disteso sulla branda con la testa appoggiata 
                al gomito, e frattanto guardava fuori attraverso l'apertura della 
                tenda, la confusa attività che precedeva ogni partenza. 
                Più lontano, il grande paese abbandonato era tutto assorbito 
                nella foschia addensatasi dopo il morire del vento, e la foschia 
                attendeva il sole per disperdersi, e per il momento era luminosa 
                e chiara, e soltanto gli eucaliptus e le chiese sulle alture avevano 
                dei contorni precisi. Poteva anche essere bello, ed egli si chiese 
                se chissà mai nella memoria gli sarebbe rimasto qualcosa 
                a ricordargli ciò che stava guardando.
 Poi, finito il caffè, si alzò e cominciò 
                a vestirsi svogliato.
 NOTE:
 1) ascari: soldati delle truppe coloniali italiane
 2) curbasc: scuduscio di pelle.
 3) Evidentemente per rastrellare eventuali resistenti all'occupazione 
                italiana.
 4) Futa: l'abito abissino che si avvolge attorno al corpo e alla 
                testa.
 5) Stare galla: fa parte dei galla, una popolazione etiopica di 
                lingua cuscuitica.
 6) Talleri: il tallero d'argento di maria teresa d'Asburgo (1717-1780) 
                era stato adottato dall'Etiopia come unità monetaria fino 
                alla conquista italiana.
 (da 
                Un po' di successo, Milano, Longanesi, 1963, pp.11-28)
 
 
  L'autore, Giuseppe Berto 
 
 
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