PUTTANA


Michael Cunningham


Aspettavo un cliente. Era l'estate del 1973. Mi ero piazzato sotto un tendone del St. Francio Hotel, a San Francisco. Avevo sentito dire che quello era il posto giusto. Avevo diciotto anni, e venivo dalla periferia. Avevo avuto feste di compleanno, una stanza tutta per me. Adesso mi vergognavo di tutto questo. Speravo che non fosse troppo tardi per imparare a muovermi nel mondo con un atteggiamento criminale.
Il mio modello era Jane Fonda in Una squillo per l'ispettore Klute. Mi piaceva il suo dolore consapevole, la falcata sapiente con la quale attraversava un mondo folle e sentimentale. Credevo che le puttane avessero una saggezza sporca, un disincanto distorto, così forte e solido da tenere loro compagnia per sempre.
Avevo paura di non essere altro che un bravo ragazzo, troppo delicato e pulito per stare al mondo.
Scelsi un punto davanti alla vetrina scura di un negozio di abbigliamento maschile, uno di quei posti che vendevano maglioni scozzesi e vestiti sportivi in colori pastello. Mi appoggiai contro il mio riflesso. Avevo paura, ma ero inconsciamente fiducioso. La cosa più difficile era stata decidere cosa indossare.
Gli altri ragazzi che si aggiravano davanti all'hotel e dall'altro lato della strada a Union Square mi guardavano più con irritazione che con disprezzo. Gli affari, come avrei imparato più tardi, andavano bene negli anni prima dell'esplosione dell'AIDS. Nessuno si preoccupava troppo della concorrenza. Anche i ragazzi più bruttini potevano tirar su dei soldi. Per la maggior parte eravamo pallidi, magri, con i capelli lunghi, varianti appena passibili di Keith Richards o David Cassidy. L'era dei muscoli non aveva ancora avuto inizio.
Diversi uomini mi passarono davanti lanciandomi a malapena uno sguardo. Nel momento più brutto comincio a stare male: era il dubbio, un sensazione familiare che non aveva niente a che fare con il fatto che stessi per infrangere le regole. Temevo che non sarei stato scelto. Sarei rimasto lì in piedi tutta la notte e alla fine, quando le luci stradali si fossero spente, sarei salito di nuovo sull'autobus e sarei ritornato a casa con la mia maglietta aderente e i miei jeans stretti e a vita bassa. I portieri del St. Francis, al cambio di turno, mi avrebbero preso in giro.
Mi dissi che se non fosse successo niente entro un'ora sarei andato via.
L'uomo arrivò meno di cinque minuti dopo. Girò l'angolo e finse di studiare la vetrina del negozio. Era sui quaranta, stava diventando calvo; aveva i baffi, ed era infagottato in un cappotto scuro.
"Come va?" mi chiese.
"Bene", risposi. "Sei di fuori?"
"Già. Los Angeles." Dalle tasche del suo cappotto, un leggero tintinnio. Poteva fare l'allenatore di football nei licei, poteva avere i tendini sfrigolanti sotto quella rude sicurezza. Aveva addosso il profumo English Leather.
"Ti diverti in città?" chiesi.
"Abbastanza: Quanto prendi?"
"Trenta dollari," dissi con una voce spavalda e sbrigativa. Una voce da Jane Fonda.
"Che fai per trenta dollari?"
"Che vuoi?"
"Voglio succhiartelo," disse. "E voglio un po' d'affetto:"
"Puoi succhiarmelo per trenta dollari. Affetto non ne do."
Non riuscivo a credere di averlo detto. Non riuscivo a credere quanto suonasse naturale. Pensai che tutte le puttane si spacciavano per puttane. Tutti i camerieri si spacciavano per camerieri, i dottori si spacciavano per dottori, i genitori per genitori.
Annuì. Non sorrise. Si stava spacciando per un puttaniere. "Andiamo,"disse.
Lo seguii su per Montgomery Street fino all'Holiday Inn. Era un Holiday Inn grande e pulito a qualche isolato di distanza, un albergo ragionevole per persone ragionevoli, che volevano evitare accuratamente sia il fango che il glamour. I miei genitori ci erano stati diverse volte.
In ascensore gli chiesi che facesse per vivere. Un freddo silenzio sarebbe stato più giusto, ma ero troppo nervoso per stare zitto.
"Commercio," disse. "E tu fai questo."
"Uh-huh. Faccio questo. Mi chiamo Trevor."
"Bob," disse. Poteva essere il suo vero nome. Non lo seppi mai.
La sua stanza era come mi aspettavo. Due letti a una piazza e mezzo, due scrittoi, due stampe floreali alle pareti. Se i miei genitori non erano stati proprio in quella stanza erano stati in una uguale a quella.
Dissi: "Prima i soldi." Mi sembrava la cosa che dovevo dire.
Annuì. Disse:"Non vanno bene venticinque?"
Lo disse scherzando, ma con un lampo di vera avarizia. Immaginai dalla nostra transazione come dovesse essere nella vita. Mascherava arroganza e avarizia dietro un bluff, una bravata da commerciante. Pretendeva un servizio perfetto e lasciava mance pidocchiose.
Mi limitai ad aggrottare la fronte. Prese trenta dollari dal portafogli e me li diede. Con i suoi soldi in mano mi sentii libero. Potevo andare dovunque. Potevo essere chiunque.
"Allora," disse.
Mi spogliai. Non feci un'esibizione, ma non ero imbarazzato né impacciato per il fatto di dover stare nudo davanti a uno sconosciuto. Amavo il mio corpo come può amarlo un ragazzo. Sapevo che quest'uomo più grande di me mi voleva. Spogliarsi era facile.
Quando mi fui tolto tutto, mi guardò annuì con un po' di sospetto. Non riuscivo a capire se fosse contento, ma mi sembrò di avere visto qualcosa che si ammorbidiva intorno ai suoi occhi. Sembrava più rimpianto che desiderio.
Mentre si sbottonava la camicia disse:" devo avvertirti. Ho il sacchetto della colostomia."
"Va bene," dissi. Non sapevo cosa fosse un sacchetto della colostomia.
Si spogliò. Era grassoccio e glabro come un pollo spennato, e aveva più o meno lo stesso colore. Alla vita portava il sacchetto, molle, mezzo pieno. Era del colore della pelle, come un cerotto, un po' più scuro della sua pelle.
Non parlammo. Non c'era niente da dire. Mi stesi su uno dei due letti. Bob aveva cominciato a darsi da fare da un po' quando squillò il telefono. Si fermò e sollevò, battendo le palpebre, leggermente disorientato.
"Cazzo," mormorò. Si sporse sopra di me per raggiungere il telefono. Il suo sacchetto della colostomia pendeva con una certa consistenza, come un secondo paio di palle. Ne sentivo l'odore, la gomma, e più debolmente l'urina. Mi spostati di lato per evitare che mi toccasse. "Pronto?" disse
Dopo un momento, continuò. "Ciao tesoro."
Non me lo sto inventando. Il mio primo cliente ricevette una telefonata dalla moglie proprio mentre eravamo nel bel mezzo.
Disse al ricevitore:"Bene. No. Stavo proprio per andare a dormire".
Mentre parlava, allungò il braccio e appoggiò la mano libera sulla mia pancia. La appoggiò semplicemente lì.
"Uh.huh," disse. "Uh-huh."
Osservai la mano che riposava sulla mia pancia. Squadrata, con le dita corte, come quella di un bambino. "Sì, disse. "Digli che mi dispiace di non avergli dato io la buonanotte. Digli che richiamerò domani prima che vada a letto."
Mi immaginai la famiglia di Bob. Sua moglie stanca seduta in una stanza rivestita di pannelli di legno, che parlava al telefono mentre il figlio in fondo al corridoio fingeva di dormire. Pensai che la sua casa dovesse crepitare di bugie, bugie come cavi elettrici fallati che si sibilavano dentro i muri.
"Bene," disse Bob. "Bene, giusto. Sì. Ciao."
Riagganciò. Si voltò verso di me.
"Mia moglie", disse.
"L'avevo capito."
Temevo che volesse parlare. Non volevo la sua storia. Non volevo sapere della sua solitudine, non volevo conoscere i complicati ingranaggi dei suoi errori. All'improvviso lo immaginai bambino. Doveva essere stato pigro e malizioso, tozzo e con un bisogno disperato di piacere. Doveva essere stato sopportato dagli altri ragazzi. Ma mai accettato. Diventato grande, doveva avere avuto un bisogno disperato di sposare una donna.
"Tu non ti sposerai, eh'" disse.
"Senti," gli dissi." C'è poco tempo."
"Hai ragione."
Ritornò a darsi da fare. Quando finì mi alzai in piedi, rapidamente. "Ci vediamo," dissi. Cominciai a rivestirmi.
Bob si alzò dal letto, si accese una sigaretta. Si mise in piedi a fumare, con il sacchetto ormai gonfio alla vita. "Che fai adesso?" chiese. "Ritorni in strada?"
"Sì", dissi, anche se non avevo alcuna intenzione di ritornare in strada quella notte. Era la mia prima volta, uno solo era abbastanza.
"Vivi con qualcuno?" chiese.
Dissi: "Sì, vivo con la mia ragazza." Era una bugia. Non avevo una ragazza. Non avevo un ragazzo. Non avevo idea di cosa volessi.
Ero completamente solo, senza alcuna direzione in cui andare, e pieno di una vergogna così forte da sconfinare nel panico.
"Lo sa, di questo?" chiese Bob. "La tua ragazza, lo sa?"
"Sì. Per lei va bene. Non abbiamo segreti."
"Bene. Questa è una buona cosa."
Finii di vestirmi. Me ne stetti in piedi davanti a lui sentendomi improvvisamente imbarazzato. Stare nudo mi era sembrato così facile. Non mi sarei mai aspettato di vergognarmi una volta rivestito.
"Ci vediamo," disse lui.
Per un istante sentii la storia che si raccoglieva intorno a noi; proprio lì in quella orrenda stanza d'albergo - non solo la storia del passato, ma la storia del futuro. Era una sensazione appena percettibile, che mi dava un po' di nausea. Non sapevo allora che il virus si stava già raccogliendo nelle vene della gente. Non sapevo quanto a lungo sarei stato solo, quanti uomini avrei cacciato dopo il sesso per potermi poi risvegliare da solo, o quanto improvvisamente e completamente mi sarei innamorato, tardi, dopo i trent'anni.
Non sapevo allora e non so ancora oggi cosa attendeva Bob, se Bob era il suo vero nome. Forse si è liberato, ha detto a tutti la verità, ha lasciato sua moglie e il figlio ed è uscito in cerca di amore. Forse ha preso l'AIDS da una della sue marchette e l'ha passato a sua moglie, ed è morto tra le maledizioni del figlio. Forse ha continuato semplicemente a vivere come aveva scelto di vivere, comprando sesso quando era fuori per affari, e sognando di nascosto.
Lì, in quella stanza d'albergo, non sapevo cosa fare. Era ora di andarmene.
"Ciao," dissi.
Quasi senza pensarci, lo baciai. Una sola volta, piano, sulle labbra. Non parlammo, rimanemmo in piedi lì.

(Tratto dal libro Mr Brother, edizione Bompiani, Milano, 2002, traduzione di Ivan Cotroneo)




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