BUAHK

Michele Camandona


"Diventa sempre più difficile descrivere una città straniera.
Diventa sempre più difficile descrivere una città straniera, una città che ci ospita per la prima volta. Diventa sempre più difficile, una affermazione che lascia pensare che in passato, descriverla una città, sia stato facile.
In passato, qui rimanda a quando per la prima volta abbiamo messo il becco fuori casa. Quando siamo arrivati per la prima volta in una città straniera. Allora e forse solo in quel momento quella città era una città qualsiasi, New York, Perth, Tokyo, Città del Capo, non aveva importanza perché era la prima volta e i nostri poli di confronto erano scarsi, forse solo due: casa e la nostra immaginazione. Possiamo aver visto 14 pellicole cinematografiche, letto 14 libri, visto 14 programmi televisivi su New York Perth Tokyo Città del Capo, non cambia molto. Fotografie film libri e documentari televisivi pungono la nostra immaginazione, alimentano la capacita di pensare, la nostra mente fino a farci intravedere la meta. Niente più. Dobbiamo pero raggiungerla, viaggiare ossia recarsi sul luogo e anche su quello della nostra immaginazione.
Dalle generazioni nate alla fine degli anni 50 e all'inizio 60 in poi, i giovani nati nei paesi industrializzati d'Oriente e Occidente, non hanno più scampo. Non ci sono più segreti nel viaggiare, non sono più necessari bauli di marenghi dorati, ne aiutanti o servi che li leghino alla sedia quando ci cattura il mal di mare o di aereo. Queste generazioni calcolando una vita media di 70 anni possono fare il giro del mondo almeno una volta prima di morire. Non vi è scampo, non vi sono giustificazioni. Volare da Tokyo a Città del Messico costa quanto una borsa italiana firmata. Anche il problema del fuso orario, il fenomeno del jet lag, lo possiamo mitigare non bevendo alcolici a bordo dell'areo, non mangiando, ma dormendo abbondantemente. E per chi ha paura di volare ci sono corsi gratuiti offerti dalle maggiori compagnie aeree e se non bastano, pillole, iniezioni, compresse training autogeno e via di seguito. La paura di volare è come quella di volere. Paura di volere, fa quasi ridere, siamo seri, paura e basta. Pensare che una volta chi aveva paura di volare lo si sarebbe definito un timorato di Dio, il terrore e la paura di incontrare chi c'è e cosa c'è oltre le nuvole. Niente. Dietro le nuvole con le cinture di sicurezza ben allacciate, ritroviamo le nostre due compagne di viaggio: casa e l'immaginazione. L'unico vero compito che ci attende oltre le nuvole, lo stesso di ogni viaggio è lo stesso: descrivere dove siamo. Più viaggi si accumulano più chiara diventa la nostra disponibilità a fare un altro viaggio, la descrizione di quanto viaggiato, rimane però una cima, un mucchio di lastre di lavagna da scalare.
E' più facile descrivere una città, a chi non vi è mai stato o a chi gia la conosce? E' più difficile descrivere una città a chi ha viaggiato molto o a chi non ha viaggiato affatto? E' più difficile descriverla, a se, oppure facendo paragoni e confronti con quanto si è visto fino allora, confronti con altre città di continenti diversi? Tutte domande queste che sorgono sul posto, appaiono e sbucano, diremmo "dal vivo", come oggi qui a Buenos Aires.
Mentre scrivo, al tavolino accanto al mio, un giovane straniero, un turista dall'aspetto nord europeo, sembra aver dribblato queste riflessioni e aver gia segnato il goal. Dalla borsa di juta bianca ha estratto una macchina fotografica che ha appoggiato sul tavolino, si è inginocchiato e poggiato l'occhio all'obbiettivo con un lampo del flash ha scattato. Una volta rientrato in patria e giunto a casa dirà probabilmente mostrando la fotografia, ecco uno dei più famosi café di Buenos Aires, ecco sono tutti un po' cosi i café della capitale. Lo stesso può fare con le grandi Avenidas che separano in fette i nugoli delle strade del Microcentro, solchi di lame in un panettone senza zucchero. In questo modo, scattando delle fotografie, il giovane turista avrà descritto la città di Buenos Aires? Piuttosto avrà fatto vedere, avrà mostrato delle immagini della città avrà ritratto e fatto vedere delle fette della capitale, ma usando delle fotografie, decine o centinaia, avrà automaticamente rinunciato a descrivere la Capital Federal, la città di Buenos Aires. Vedere, mostrare e descrivere sono operazioni contigue, non coincidenti.

Di Buenos Aires prima di arrivare sapevamo quello che sanno tutti. Capitale federale dell'Argentina tirata su, sembra, da un manipolo di genovesi e piemontesi, spagnoli, francesi inglesi e tedeschi fino alle Ferrari del Presidente Menem. Degli argentini avevamo sentito dire il classico luogo comune: - gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e pretendono di essere inglesi - .
Per descrivere una città ci si può orientare su due piste: quella storica, verticale, delle stratificazioni culturali sociali ed economiche oppure su quella geografica, orizzontale, che ricorre a paragoni e confronti con altre geografie urbane, nel nostro caso, di altre capitali. La differenza maggiore fra le due piste, sembra che risieda in termini di volume e di spessore. Ci vuole un libro, è necessario uno studio per fare una descrizione storica, bisogna ripercorrere il cammino di altri storici, sollevare strati di centinaia di anni, esporli al lettore, interpretarli giungendo fino a oggi a questa medesima mattina in questo Café, per inoltrarsi poi verso la contemporaneità. La pista geografica ci regala una maggiore immediatezza. Si può descrivere qualsiasi capitale con poche righe scritte su di una cartolina, una lettera al fidanzato, una pagina di diario un articolo di giornale.
Inoltre, cosa divertente, sulla pista della geografia viene se non proprio consentita, ma è ammessa anche una eccessiva avventatezza, che ci permette di affermare che Buenos Aires assomiglia un po' a Hong Kong. Più dell'affermazione in se alquanto sorprendente, è quell'un po' che ci butta nello sconforto. Se accettiamo questo un po' allora dobbiamo ammettere che la capitale federale argentina, Buenos Aires, assomiglia un po' anche a Parigi, Londra, e Madrid. Quello di Parigi è poi un paragone a colpo sicuro, una riflessione che hanno fatto, un affermazione che hanno pensato e detto gran parte dei turisti e dei viaggiatori: Buenos Aires è una città europea che ti aspetta nel fondo dell'America del Sud. Un commento ormai cosi noto da trovare spazio anche nelle guide dei turisti più giovani, quelli con gli zaini in spalla.
Quando pensiamo a una città europea ne vengono in mente molte, da Trier a Catania, nel caso invece di una capitale europea allora non rimane che Parigi. Escludiamo Londra perché in Europa non è mai voluta entrare e non saremo certo noi a provare a includerla con la forza.

Sulle grandi avenidas sormontate da palazzi bianchi e incappucciate di un nero materiale che ha i riflessi di lavagna, camminiamo davvero sui Boulevard parigini o quanto meno lungo quelli dei film francesi classici che un po' tutti abbiamo visto, e ci diciamo che si somigliano davvero in maniera impressionante. Viene la tentazione di dire identici. E passi allora il paragone con Parigi aggiungendo anche la fisionomia degli argentini cosi europea cosi franco italo spagnola.
Il paragone con Hong Kong sembra tuttavia davvero imperdonabile. Hong Kong, l'ex capitale di se stessa, una Sparta angolofona d'oriente, ne è rimasto ora il guscio di una ex città stato fittizia ridotta all'appendicite gettata nell'oceano dalla sfatta madre patria cinese. Hong Kong è in Asia Buenos Aires in America. I cinesi di Hong Kong si sono battuti e tanto hanno fatto da riuscire a disfarsi dei britannici, più comunemente e volgarmente conosciuti come inglesi. Gli indios , o qualsiasi etinia locale che prima risiedeva in questo sbocco della Pampa a nord ovest dell'immensa terra della plata adesso fanno da sfondo alle fotografie dei turisti alle grandi cascate.
La pista storica anche nel caso di una confronto H.K.-B.A. di conseguenza è troppo impervia per raggiungere il nostro obbiettivo. Rimaniamo sul terreno continuiamo a passeggiare per la capitale federale di giorno e di notte. Il cuore di questa capitale è disegnato da due assi urbanistici essenziali. Le grandi Avenidas che fanno da fiumi a delimitare i vari barrios intrecciati dalle strade e vie che colpiscono verticalmente le Avenidas. Strade o vie è difficile dirlo. Sono larghe dai cinque ai sette metri inclusi dei bassi rilievi che chiamano marciapiedi, un percorso tipo gincana fra le buche che li devastano come una faccia butterata. Vie o strade fiancheggiate da palazzi di piani e piani, colossi che sfidano placidamente i sismi, non grassi ma alti e alti, quanti piani. Non tutti belli, ma neanche tutti brutti pero molti, moltissimi hanno in comune delle qualità che li fanno definire - fatiscenti -.
Cosa vogliamo indicare, quando usiamo l'aggettivo "fatiscente", un aggettivo davvero urbano, usato per indicare quartieri fatiscenti, un paese fatiscente e un edificio fatiscente e una piazza fatiscente. Un edificio fatiscente non è necessariamente disabituato, ne sull'orlo del crollo o senza acqua e luce. La gente che lo abita non è necessariamente miserabile né criminale, al contrario vi possiamo trovare rampolli di ricche famiglie tramutatisi in artisti poeti o vati della critica sportiva. Gli edifici fatiscenti non sono neanche brutti e al contrario hanno diversi colori e belle terrazze anni 70 con qualche pianta pronta a sporgersi. Anzi molti oltre che fatiscenti questi palazzi li chiamerebbe romantici.
Camminando per Buenos Aires quindi abitiamo queste due realtà urbanistiche, le grandi avenidas, fiumi d'argento dalle sponde larghe e generose, e le vie o strade strette e scure che di giorno hanno poche ore di sole distendendosi fra le torri fatiscenti delle case dei portenos. I marciapiedi, questi fantasmi, affiorano dalle perenni pozze d'acqua create dalle perdite di ventole esterne di condizionatori d'aria che risalgono al 1979, ultimo campionato del mondo di calcio nel Sud del Mondo. Di notte le avenidas, nelle caldi notti, accolgono il lieve vento della sera che accarezza gli alberi ricchi di verde, mentre le strade e le vie ai fianchi giù a picco incominciano come piante tropicali a esalare il caldo della giornata, grasse folate di umidità, lingue viscide di antichi satiri e demonietti argentati e dispettosi appesi sulle abbondanti insegne al neon tutte molto colorate. Di sera e di notte, le nostre passeggiate diventano preziose navigazioni fra correnti d'acqua fresca e linda trasportata dalle Avenidas per ritrovarsi nella morsa di bonacce laterali dove l'aria appicicatticcia ci fa pesare l'elastico dei nostri indumenti intimi e le calze ai piedi. I residenti della capitale conoscono la direzione dei venti, la forza delle onde, lo spessore dell'aria e indifferentemente ricchi signori e poveri medio alti frequentano i locali accesi fino a tarda notte sulle sponde della capitale.

Quando l'aereo incomincia a perdere quota, i flaps sulle ali si rizzano e i carrelli vengono sganciati, l'atterraggio è ormai inevitabile e quando avveniva - fino a qualche anno fa - nel vecchio aeroporto di Hong Kong allora potevamo accorgersi di essere già in città prima ancora che l'uccello d'acciaio avesse toccato terra. L'aeroporto di Hong Kong era uno dei più pericolosi proprio perché si trovava al centro della piccola città e ci regalava atterraggi che fanno sembrare Punta Raisi a Palermo un opera architettonica pari a quella del Kansai a Osaka realizzata dal nostro Renzo Piano. Smaltito l'incubo di volare a bordo di un jumbo all'altezza del ferro da stiro della signora Wong e strofinando inutilmente l'oblò appannato dal vapore del riso bianco locale e dagli involtine di verdure, atterriamo sani e salvi e cosa ci ritroviamo di fronte? Una città spaccata in due.
La città è divisa dal mare. Da una parte abbiamo Kaoloon e dall'altra - una volta scesi dal traghetto - il Central. Il secondo pezzo della città, il Central è quello che spicca sulle cartoline e nei film di Jackie Chan con il famoso grattacielo trapezoidale della Banca di '''''''''''''' che spunta fra quelli di aziende di compravendita di titoli azionari, e le altre banche e altre aziende. E' quella parte della città dove i britannici ancora oggi, salendo su per le curve strette - un po' come quelle di Genova - delle salite del promontorio, se sentono ancora a casa loro, soprattutto quando arrivati in cima ci aspetta il viso arrogante della Queen Mother. (Se osserviamo bene l'espressione della vecchia ci accorgiamo della raggelante somiglianza con l'ex Segretario di Stato degli USA, Madleine Albright).
Kaoloon invece si trova sulla sponda opposta, appena scesi vi accoglie la sagoma imponente del Penisola Hotel, uno dei più belli al mondo, quella rotonda e leggera del Museo di Arti moderne, mi sembra, ma potrebbe essere anche e solo della danza e dello spettacolo. Dietro a questi due esempi di architettura imponente, ma progettata per galleggiare nello spazio urbano, si apre l'esistenza fatiscente di Kaoloon, un nugolo di vie, di condizionatori d'aria sgocciolanti, di insegne rosse e gialle di sarti e negozi di elettrodomestici in cantonese, pechinese inglese giapponese indu e via di seguito. A differenza delle strade e vie strette di Buenos Aires vi sono anche i commercianti che sputano senza lasciare la soglia dei loro stabili. Viuzze scavate fra palazzoni esalano profumo di riso , lingue calde di lardo bruciato di maiali gonfi e appesi pronti a essere serviti in un mare di verdure blu. Dopo qualche ora a passeggio per Kaolon abbiamo bisogno di affacciarci sul mare, boccheggiare e pian piano respirare, passarci un dito fra l'elastico degli slip e la pelle sudata, sfilarci le calze imbevute di sudore fino a diventare di legno. Raggiungiamo il traghetto e quella breve traversata di pochi minuti fino al Central è il nostro vero obbiettivo e non l'attracco al prossimo pontile. Il passaggio dalle vie nel regno della fatiscenza all'abbraccio largo del mare che pur sporco e affollato ci regala un apertura, un grande avenida dove respirare.

Dimenticavo di precisare che Buenos Aires e Hong Kong, mi hanno ospitato l'una nel mese di Marzo l'altra in quello di Settembre. Ossia entrambe, in piena estate.


Buenos Aires 6 Marzo 2001
Cafe Richmond , AV. Florida,C.F.




Michele Camandona vive e lavora a Tokyo come annunciatore radiofonico di NHKRadio Giappone, ha pubblicato racconti e traduzioni. Recentemente è uscita in rete la terza parte del romanzo Cucina Tedesca su www.losciacallo.com


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