CULTURA E COLONIZZAZIONE

Aimé Césaire


Dopo un po' di giorni abbiamo cominciato ad interrogarci anche sul senso di questo nostro Congresso.
Ci siamo chiesti in particolare quale possa essere il denominatore comune in un'assemblea che riunisce persone di così diversa estrazione, tra chi proviene dall'Africa nera e chi dall'America del Nord, chi dalle Antille chi dal Madagascar.
Il denominatore comune è la condizione coloniale.
La maggior parte dei paesi neri vive, infatti, sotto un regime coloniale. Anche un paese indipendente come Haiti è di fatto un paese semi-coloniale. E i nostri fratelli Americani, a causa della discriminazione razziale, si trovano in una posizione difficile in seno ad una grande nazione moderna. Si tratta di una situazione che non si comprende se non si fa riferimento ad un colonialismo, certo abolito, ma le cui conseguenze continuano a farsi sentire.
Che significa tutto questo? Che, per quanto desiderosi di assicurare una giusta serenità al nostro dibattito, se vogliamo contemporaneamente stringere la realtà da vicino, dobbiamo affrontare il problema che determina tuttora lo sviluppo delle culture nere: la condizione coloniale. In altri termini, che lo si accetti o meno, non si può porre oggi il problema di una cultura nera senza porre nel medesimo tempo il problema del colonialismo, visto che tutte le culture nere si sviluppano attualmente dentro quella particolare situazione che si chiama condizione coloniale, o semi-coloniale, o para-coloniale.

Ma, che cos'è la cultura? È necessario darne una definizione per dissipare possibili malintesi e per rispondere in maniera chiara a quelle preoccupazioni manifestate da alcuni nostri avversari, ma anche da alcuni amici.
Ci si è interrogati, per esempio, sulla legittimità stessa di questo Congresso. Qualcuno ha detto: se è vero che non esiste se non una cultura nazionale, parlare di una cultura negro-africana non sarà un'astrazione illegittima?
Credo che il miglior modo per impostare le questioni sia sempre quello di definire con cura le parole che usiamo.
Penso che sia vero che non esista cultura se non come cultura nazionale. Eppure salta agli occhi che le culture nazionali, anche se integre nelle loro peculiarità, si raggruppano in ragione delle loro affinità. Queste comunità o grandi famiglie di culture hanno un nome: civiltà. In altri termini, se è evidente che c'è una cultura nazionale francese, una cultura nazionale italiana, inglese, spagnola, tedesca, russa, ecc., non è meno evidente che tutte queste culture, al di là delle loro concrete differenze, presentino delle somiglianze tali che si possa dire che accanto alle culture nazionali che ho appena elencato ci sia una civiltà europea.
Allo stesso modo, ritengo che si debba parlare di una grande famiglia di culture africane che merita il nome di civiltà negro-africana che accomuna le diverse culture dei paesi africani. E sappiamo bene che gli avatars della storia hanno fatto sì che oggi l'area di questa civiltà vada ben oltre i confini del continente africano, tanto che possiamo affermare che in Brasile e nelle Antille, ad Haiti, nelle Antille francesi e negli Stati Uniti esistono se non dei centri, per lo meno delle propaggini della civiltà negro-africana.
Non sto esponendo un punto di vista inventato da me per avvalorare il discorso che vado facendo, si tratta, invece, di una prospettiva implicata in qualsiasi discorso sociologico e scientifico intorno al nostro problema.
Il sociologo francese Mauss ha definito la civiltà "un insieme di fenomeni abbastanza numerosi e importanti che si estende ad un numero sufficientemente considerevole di territori". Si può dedurre da questa definizione che una civiltà tende all'universalità mentre una cultura tende alla particolarità. Ancora: che la cultura è la civiltà propria di un popolo o di una nazione, non condivisa con altri e che porta il carattere indelebile di quel popolo o di quella nazione. Se la si vuole descrivere da un punto di vista esterno, diremo che essa è l'insieme dei valori materiali e spirituali creati da una società nel corso della sua storia, ed è chiaro che per valori bisogna intendere degli elementi molto diversi tra loro come la tecnica o le istituzioni politiche, una cosa fondamentale come la lingua e una cosa effimera come la moda, e le arti così come la scienza o la religione.
Se la si vuole definire invece in termini di finalità e presentarla nel suo dinamismo, diremo che la cultura è lo sforzo di tutta una comunità per dotarsi di una personalità.
Civiltà e cultura, quindi, definiscono due aspetti della stessa realtà: la civiltà delimita il circuito più esterno della cultura, ciò che una cultura ha di più generale, mentre la cultura è il nocciolo intimo e irradiante, l'aspetto più singolare di una civiltà.
Sappiamo che Mauss cercando le ragioni della partizione del mondo in "aree di diverse civiltà" nettamente definite, le trovò in una qualità profonda, comune secondo lui a tutti i fenomeni sociali, che egli denominò: l'arbitrarietà. "Tutti i fenomeni sociali sono ad un certo livello opera della volontà collettiva, e chi dice volontà umana dice scelta tra diverse opzioni possibili…Da simile natura delle rappresentazioni e della pratiche collettive deriva che l'area della loro estensione, fino a quando l'umanità non formerà un'unica società, è necessariamente finita e relativamente fissa.".
E così ogni cultura avrà la sua specificità. Specificità, perché opera di una volontà particolare, unica e che ha scelto tra diverse opzioni.
Si vede chiaramente dove ci porta questa idea.
Facciamo un esempio concreto: si può dire che esiste una civiltà medioevale, una civiltà capitalista e una civiltà socialista. Ma salta subito agli occhi che sul terreno di una stessa economia la vita, la passione di vivere, la spinta a vivere di ciascun popolo ha delle radici molto diverse da quelle degli altri. Ciò non significa che non esista un determinismo della struttura sulla sovrastruttura, per dirla con il linguaggio di Marx. Significa, invece, che il rapporto tra struttura e sovrastruttura non è mai semplice e che non deve essere mai semplificato. È Marx stesso ad esprimersi al proposito con grande chiarezza (Il Capitale, t. III): "È' sempre nei rapporti immediati tra i padroni dei mezzi di produzione e i diretti produttori, è sempre in questi rapporti che scopriamo l'intimo segreto, il fondamento nascosto di ogni struttura sociale. Questo non impedisce che la stessa base economica - la stessa per lo meno rispetto alle condizioni principali - può, in ragione di innumerevoli ma distinte condizioni empiriche - fattori naturali e razziali, influenze storiche provenienti dall'esterno… - presentare una infinità di variazioni e di gradazioni che non possono essere comprese se non attraverso un'analisi delle specifiche circostanze empiriche date".
Non si potrebbe dir meglio che la civiltà non è mai abbastanza particolare da non supporre, vivificandola, una costellazione di risorse creative, di tradizioni, di credenze, di modi di pensare, di valori, un vero arsenale intellettuale, un complesso emozionale e una saggezza che è quanto chiamiamo cultura.
Credo che tutto ciò legittimi questa riunione. C'è tra tutti noi qui riuniti una doppia forma di solidarietà: una orizzontale, quel tipo di solidarietà che è determinata dalla condizione coloniale, o semi-coloniale, o para-coloniale, imposta dall'esterno, e un'altra solidarietà, verticale direi, una solidarietà nel tempo, che proviene da una specie di unità primordiale, l'unità della civiltà africana, che si è poi differenziata in una serie di culture che, in gradi diversi, a quella sono legate.
Il risultato del ragionamento è che possiamo considerare questo Congresso da due punti di vista diversi ma entrambi veri: questo Congresso può rappresentare quella specie di ritorno alle origini che effettuano tutte le comunità quando sono in crisi e, nello stesso tempo, è un'assemblea che riunisce uomini che affrontano le stesse difficoltà di vivere e, perciò, sono uomini che combattono la stessa lotta e nutrono la stessa speranza.
Non credo che ci sia un'antinomia tra le due cose. Al contrario, credo che questi due aspetti siano complementari tra di loro e che il nostro cammino che può sembrare bloccato tra il passato e l'avvenire è, al contrario, il più naturale, ispirato dall'idea che la rotta più breve verso l'avvenire è sempre quella che passa attraverso l'approfondimento del passato.

Vengo al mio proposito essenziale: quello di cercare di illustrare le condizioni concrete alle quali oggi si pone il problema delle culture nere.
Ho già affermato che questo condizionamento ha un nome: la situazione coloniale, o semi-coloniale, o para-coloniale, nella quale è costretto lo sviluppo delle nostre culture.
E allora ecco porsi un problema: che influenza può avere tale condizionamento sul loro sviluppo? E, innanzitutto, una forma politica può avere delle conseguenze culturali? La questione non è così semplice. Se si pensa con Frobenius che la cultura nasca dall'emozione dell'uomo davanti al mondo e che essa è <<paideuma>>, allora non c'è influenza, se non molto limitata, del politico sul culturale.
Se si pensa con Schubart che il fattore primordiale sia di ordine geografico e che "è lo spirito del paesaggio che forgia l'animo dei popoli", allora non c'è alcuna influenza, se non abbastanza trascurabile, del politico sulla cultura.
Ma se pensiamo, come il buon senso ci consiglia di fare, che la civiltà è innanzitutto un fenomeno sociale e la risultante di fatti e di forze sociali, allora l'idea di una influenza del politico sul culturale s'impone con la massima evidenza.
Hegel lo sa bene quando scrive, nelle Lezioni di filosofia della storia, la piccola frase innocente che poi Lenin considererà meno innocente di quanto ne avesse l'aria, visto che la cita e la sottolinea con forza nei suoi Quaderni filosofici: "L'importanza della natura non deve essere né sotto- né sovra-stimata; certamente il dolce cielo della Jonia ha contribuito molto alla grazia dei poemi omerici. Ma esso da solo non può generare degli Omeri. Tanto è vero che non ne ha prodotti mai più da allora. Nessun aedo nacque, infatti, sotto la dominazione turca".
Un regime politico e sociale che sopprima l'autodeterminazione di un popolo uccide al contempo la capacità creativa di quel popolo.
E, il che è lo stesso, lì dove ci sia un regime coloniale, delle intere popolazioni sono private della loro cultura, di ogni possibilità di cultura.
In questo senso possiamo dire che la storica Conferenza di Bandung - nella quale è stato condannato il colonialismo - non è stato solo un grande avvenimento politico, ma anche un importante evento culturale. Essa ha rappresentato, infatti, il sollevamento pacifico di popoli affamati non solo di giustizia e di dignità, ma anche di ciò che la colonizzazione ha loro strappato in primo luogo: la cultura.
Il meccanismo di morte della cultura e delle civiltà sotto il regime coloniale comincia ormai ad essere riconosciuto. La cultura per svilupparsi ha bisogno di una cornice, di una struttura. Gli elementi che strutturano la vita culturale di un popolo colonizzato spariscono o si avviliscono sotto il regime della colonizzazione. Si tratta, naturalmente, in primo luogo dell'organizzazione politica. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che l'organizzazione politica che un popolo si è liberamente data, fa parte in modo eminente della cultura di quel popolo che, d'altra parte, essa stessa contribuisce a determinare.
Subito dopo bisogna considerare la lingua che questo popolo parla. La lingua, come qualcuno ha detto, è "psicologia pietrificata". La lingua indigena quando non è più la lingua ufficiale e amministrativa, la lingua della scuola e delle idee, subisce un declassamento che impedisce il suo sviluppo e spesso ne minaccia la stessa esistenza.
Bisogna farsi penetrare da quest'idea. Quando gli inglesi distrussero l'organizzazione statuale degli Ashanti in Costa-d'oro diedero un colpo anche alla loro cultura.
Quando i francesi non riconoscono il carattere di lingua ufficiale all'arabo in Algeria o al malgascio in Madagascar, impedendo a queste lingue di evolversi alle condizioni del mondo moderno, essi procurano una ferita profonda alla cultura araba e a quella malgascia.
Miseria della civiltà colonizzata. Soppressione o svilimento di tutto ciò che la struttura. Come meravigliarsi, allora, della sparizione di quella caratteristica fondamentale di ogni civiltà vivente che è la capacità di rinnovarsi?
È un luogo comune in Europa diffamare i movimenti di liberazione nazionale dei paesi coloniali presentandoli come forze oscurantiste che si sforzano di far rivivere forme medioevali di vita e di pensiero. Ma ciò vuol dire dimenticare che il potere di superarsi sopravvive in ogni civiltà che sia viva e che ogni civiltà è viva quando è libera. Ciò che oggi accade nell'Africa e nell'Asia libere mi sembra molto significativo. Basti ricordare che è la Tunisia liberata dalla colonizzazione che sopprime i tribunali religiosi e non la Tunisia colonizzata; che è la Tunisia libera che nazionalizza i beni habous e sopprime la poligamia e non la Tunisia dei colonialisti. E che è l'India sotto il dominio inglese che mantiene lo statuto tradizionale della donna indiana e che è l'India liberatasi della tutela inglese che parifica la donna all'uomo.
Limitata nell'azione e frenata nel dinamismo la civiltà colonizzata, non ci si può illudere, entra ormai nel crepuscolo che precorre la fine.
Spengler, nel suo "declino dell'Occidente" cita i versi di Goethe:

E' necessario che tu sia così, nulla sfugga alla sua testa.
Così disse Apollo, così disse il profeta.
Sviluppa vivendo la forma impressa in te
Che né tempo né re o legge possa spezzare.

Il grande rimprovero che facciamo all'Europa è di aver spezzato lo slancio vitale delle civiltà che non avevano ancora realizzato tutte le loro promesse, di non aver loro permesso di sviluppare e portare a compimento tutta la ricchezza di forme contenuta nella loro "testa".
Sarebbe superfluo studiare il processo mortale di questo insieme. Diciamo semplicemente che è proprio alla base che esso è stato spezzato. Alla base, e quindi irrevocabilmente.
Viene in mente il paradigma di Marx sulle società dell'India: piccole comunità che scoppiano, perché l'intrusione straniera fa saltare la loro base economica. Assolutamente vero, e non solo per l'India. Lì dove la colonizzazione europea ha fatto irruzione, l'introduzione dell'economia basata sul denaro ha provocato, insieme con la disintegrazione della famiglia, la distruzione o l'indebolimento dei legami tradizionali e la polverizzazione della struttura sociale ed economica delle comunità originarie. Quando si affermano queste cose e si appartiene ad un popolo colonizzato, la propensione degli intellettuali europei è di gridare scandalizzati all'ingratitudine e di ricordare con compiacimento ciò che il mondo deve all'Europa. In Francia abbiamo ancora molto viva l'impressionante tesi sostenuta dal signor Caillois e dal signor Béguin, il primo con una serie di articoli intitolata "Illusioni all'indietro" e il secondo con la sua prefazione al libro di Pannikar sull'Asia. Scienza, storia, sociologia, etnografia, morale, tecnica, non manca nulla. Che importa qualche atto inevitabile di violenza di fronte alla lista di meriti? C'è sicuramente qualcosa di vero in simili descrizioni. Ma nessuno di questi signori può impedire che agli occhi del mondo la grande rivoluzione che l'Europa incarna nella storia dell'umanità non sia costituita né dall'introduzione di un sistema fondato sul rispetto della dignità umana, come si sforzano di farci credere, né sull'invenzione del rigore intellettuale, ma che tale rivoluzione è fondata su un ordine totalmente diverso, che è sleale non guardare in faccia: l'Europa è stata la prima ad aver inventato e ad aver introdotto ovunque essa ha dominato, un sistema economico e sociale basato sul denaro, e di aver impietosamente eliminato qualsiasi, dico qualsiasi, cultura, filosofia e religione: tutto ciò che poteva rallentare o bloccare la corsa all'arricchimento di un gruppo di individui e di popoli privilegiati.
So perfettamente che da un po' di tempo si contesta il fatto che i danni provocati dall'Europa siano irreparabili. Si sostiene che se si fossero prese alcune precauzioni si sarebbe potuto alleviare gli effetti devastanti della colonizzazione. L'Unesco si è recentemente espressa su questa questione (Corriere dell'Unesco, febbraio 1956) e abbiamo sentito il suo direttore generale Evans affermare che "si poteva in certe condizioni introdurre il progresso tecnico in alcune culture in modo da armonizzarlo con il loro sviluppo". E una famosa etnografa, Margaret Mead, ha affermato che se si tiene presente che "ogni cultura forma un insieme logico e coerente" e che "ogni modificazione di un elemento qualsiasi di una cultura comporta delle trasformazioni anche in altri punti", allora, una volta che si siano prese queste precauzioni, si può "introdurre in questa o in quella cultura l'educazione di base, delle nuove pratiche agricole o industriali, delle nuove regole di amministrazione sanitaria…con un minimo di turbamenti o per lo meno finalizzando costruttivamente gli inevitabili turbamenti prodotti".
Tutto questo è certamente dettato da buone intenzioni. Ma bisogna che ognuno si assuma le sue responsabilità: non esiste una cattiva colonizzazione che distrugge le civiltà indigene e attenta alla "salute morale dei colonizzati", e un'altra colonizzazione, una colonizzazione illuminata e ispirata dalla migliore etnografia, che integrerebbe in maniera armoniosa, e senza rischi per "la salute morale dei colonizzati", degli elementi culturali del colonizzatore nel corpo delle civiltà indigene. Bisogna che ognuno faccia la sua parte: i tempi della colonizzazione non si coniugano mai con i verbi dell'idillio.

Abbiamo visto che qualsiasi colonizzazione si traduce prima o dopo nella morte della civiltà colonizzata. Ma si potrebbe dire: se la civiltà indigena muore, il colonizzatore la sostituisce con un'altra civiltà, addirittura superiore a quella indigena: quella del colonizzatore.
Propongo di chiamare questa illusione "l'illusione di Deschamps", dal nome del Governatore Deschamps che inaugurando ieri mattina questo Congresso ricordava in modo patetico che la Gallia era stata colonizzata dai Romani e che i Galli non avevano conservato una troppo cattiva memoria di tale colonizzazione. L'illusione di Deschamps è antica quanto la stessa colonizzazione romana. Si può anche chiamarla l'illusione di Rutilio Namaziano, visto che tra gli antenati del Governatore Deschamps trovo un uomo che non era Governatore ma Prefetto di Palazzo, cariche molto simili, che nel quinto secolo dopo Cristo esprimeva in versi latini un pensiero perfettamente analogo a quello dichiarato in prosa francese dal nostro Governatore. E' chiaro che l'accostamento pone qualche problema. Ci si può domandare, ad esempio, se la comparazione tra situazioni storiche molto differenti ha qualche valore e se, come in questo caso, una colonizzazione pre-capitalistica possa essere comparata ad una capitalista. Ma ascoltiamo Rutilio Namaziano:

Fecisti patriam diversis gentibus unam;
Profuit iniustis te dominante capi
Dumque offers victis proprii consortia iuris
Urbem fecisti quod prius orbis erat

Constatiamo en passant che l'ordine colonialista moderno non ha ispirato nessun poeta e che l'orecchio dei colonialisti moderni non è stato mai addolcito da un inno di riconoscenza. Direi che ciò rappresenta già di per sé una forma di condanna dell'ordine colonialista. Ma poco importa. Veniamo alla sostanza dell'illusione: così come in Gallia una cultura latina prese il posto di quella indigena, ci sarebbero nel mondo moderno come conseguenze della colonizzazione dei polloni di civiltà francese, inglese o spagnola. Ancora una volta si tratta di un'illusione.


La diffusione di un simile errore non è mai inconsapevole o disinteressata. Accontentiamoci a tal proposito di ricordare che nel 1930, in una riunione di filosofi e di storici dedicata alla definizione del termine "civiltà", un uomo politico come Doumer interrompeva lo storico Berr o l'etnografo Mauss, per segnalare i pericoli politici del loro relativismo culturale, sostenendo che bisognava lasciare intatta l'idea che la Francia aveva come missione di portare "la civiltà" nelle sue colonie, la civiltà francese, chiaramente. Dico illusione perché bisogna convincersi del contrario: nessun paese colonizzatore può prodigare la propria civiltà ad un paese colonizzato, perché non c'è, non c'è mai stata e non ci sarà mai, qua e là per il mondo come si voleva nei primi tempi del colonialismo, nessuna "Nuova Francia", o "Nuova Inghilterra", o "Nuova Spagna".
Bisogna insistere su questo argomento: una civiltà è un insieme coordinato di funzioni sociali: da quelle tecniche a quelle intellettuali, da quelle organizzative a quelle istituzionali. Dire che il colonizzatore sostituisce la civiltà indigena con la propria può significare solo una cosa: che la nazione colonizzatrice assicura alla nazione colonizzata e agli indigeni nel proprio paese la padronanza completa di tutte queste diverse funzioni.
Che cosa insegna, invece, la storia del colonialismo? Esattamente il contrario. E cioè: che la tecnica in un paese coloniale si sviluppa sempre ai margini della società indigena e senza che sia mai data agli indigeni la possibilità di possederla. (La grande miseria dell'insegnamento tecnico in tutti i paesi coloniali e lo sforzo dei colonizzatori di impedire agli operai indigeni l'accesso alla qualificazione tecnica, sforzo che trova la sua espressione più odiosa e radicale in Sudafrica, sono significativi a questo proposito). Insegna che per quanto riguarda le funzioni intellettuali non c'è paese coloniale che non sia afflitto dall'analfabetismo e dal basso livello dell'istruzione pubblica. E che in tutte le colonie per quanto riguarda le funzioni che riguardano l'organizzazione politica e le istituzioni, il potere appartiene alle potenze colonizzatrici ed è esercitato direttamente dal governatore e dai suoi uomini.
(Il che spiega, detto en passant, la vanità e l'ipocrisia di tutte le politiche basate sull'integrazione o sull'assimilazione. Politiche che i popoli riconoscono facilmente ormai come trappole acchiappagonzi).
È evidente, allora, la portata delle esigenze in campo. Le riassumerò in poche parole: per il colonizzatore esportare la propria civiltà nel paese colonizzato significa solo intraprendere deliberatamente l'edificazione di un capitalismo indigeno (e di una società capitalista indigena) immagine e allo stesso tempo concorrente del capitalismo metropolitano.
Basta dare uno sguardo alla realtà per constatare che in nessun luogo il capitalismo metropolitano ha generato un capitalismo indigeno. E se in nessun paese coloniale è nato un capitalismo indigeno - non parlo, evidentemente, del capitalismo dei coloni, che è direttamente collegato con quello metropolitano - non bisogna cercarne le ragioni nella incapacità degli indigeni, ma nella natura stessa e nella logica del capitalismo colonizzatore.
Malinowski, per altri versi molto criticabile, ha il merito di aver evidenziato con chiarezza il fenomeno che egli definisce del "dono selettivo".
" La concezione che descrive la civiltà europea come una cornucopia da cui si spande liberamente ogni ricchezza è fallace. Non c'è bisogno di essere un antropologo per scoprire che il "dono europeo" è sempre altamente selettivo. Noi non doniamo mai e mai doneremo ai popoli indigeni che vivono sotto il nostro controllo - dato che sarebbe una pura follia dal punto di vista del realismo politico - i seguenti elementi della nostra cultura: 1) gli strumenti del potere materiale: le armi da fuoco e gli altri mezzi militari che rendono efficace la difesa e possibile l'aggressione; 2) i nostri strumenti del potere politico. La sovranità resta sempre nelle mani della "corona britannica", della "corona belga" o della repubblica francese. Anche quando governiamo in maniera indiretta è sempre sotto il nostro controllo che il potere viene esercitato; 3) noi non dividiamo con gli indigeni l'essenziale dei profitti e della nostra ricchezza. Il metallo che proviene dalle miniere d'oro e di rame africane non viene mai avviato nei canali africani, se non come salario, che resta comunque molto basso. Anche quando in un sistema di sfruttamento economico indiretto delle risorse naturali, come quello che pratichiamo in Africa occidentale o in Uganda, lasciamo una parte del profitto agli indigeni, il controllo completo dell'organizzazione economica resta sempre nelle mani dell'impresa occidentale.
In nessun posto è accordata l'uguaglianza politica, né quella sociale, né la piena parità religiosa. In effetti, quando consideriamo tutti i punti che abbiamo elencato è facile constatare che non si tratta affatto di un "donare", né di un offrire "generosamente", ma piuttosto di un "prendere". Noi abbiamo preso agli africani le loro terre e in generale le terre più ricche. Abbiamo tolto alle tribù la sovranità e il diritto di fare guerra. Facciamo pagare delle imposte agli indigeni la cui destinazione essi non possono controllare. Infine, il lavoro che essi forniscono non è mai volontario, se non di nome." (Introductory essays on the anthropology of changing African cultures, 1939).
Malinowski avrebbe tirato le conclusioni di questo discorso qualche anno più tardi in The dynamics of culture.
" E' il dono selettivo l'elemento che forse più di tutti gli altri nella condizione coloniale determina il processo di cambiamento culturale. Ciò che gli europei si astengono dal donare è allo stesso tempo significativo e ben determinato. Si tratta di un rifiuto che tende a preservare dal contatto culturale tutti quegli elementi che costituiscono i privilegi economici, politici e giuridici della cultura superiore. Se fossero donati agli indigeni il potere, la ricchezza e gli altri benefici sociali, il cambiamento culturale sarebbe relativamente facile. L'assenza di tali fattori, invece, il nostro "dono selettivo", rende così difficile e complicato il cambiamento culturale".
Sembra chiaro, quindi, che non si tratta affatto e mai di un dono totale; e dato che non si da il caso di una civiltà che si prodighi totalmente non si può parlare di un trasferimento di civiltà. Nella sua opera Il Mondo e l'Occidente, Toynbee avanza una teoria molto ingegnosa intorno alla psicologia degli incontri delle civiltà. Egli ci spiega che quando il raggio di una civiltà tocca un corpo sociale straniero, "la resistenza del corpo straniero rifrange il raggio culturale scomponendolo, esattamente come il prisma scompone i raggi di luce ed evidenzia i colori dello spettro". La resistenza del corpo sociale straniero si oppone, quindi, alla diffusione totale di una cultura in un'altra e opera una specie di selezione di natura fisica che trattiene addirittura gli elementi meno importanti e più nocivi.
La verità è un'altra: è Malinowski che ha ragione su Toynbee. La selezione degli elementi culturali offerti ai colonizzati non è l'effetto di una legge fisica ma è risultato di una politica voluta dal colonizzatore, una politica che si può riassumere nel carattere stesso del capitalismo: il regime dell'import-export, sua potenza, virtù e fondamento.

Ma, si dirà, c'è un'altra possibilità: quella dell'elaborazione di una nuova civiltà, una civiltà che sarà debitrice nei confronti dell'Europa così come delle civiltà indigene. Scartate le due soluzioni, quella della conservazione della civiltà indigena e quella dell'esportazione oltremare della civiltà del colonizzatore, non si può immaginare un processo che tenderebbe all'elaborazione di una civiltà assolutamente nuova che non si rifarebbe né a quella europea né a quella indigena?
Questa è proprio l'illusione che attira molti di quegli europei che immaginano di assistere nei paesi di colonizzazione francese o inglese alla nascita di civiltà franco o anglo-africane o franco e anglo-asiatiche.
Per poterlo credere si appoggiano sull'idea che ogni civiltà vive di prestiti. Da qui deducono che attraverso la colonizzazione che mette a contatto due diverse civiltà la civiltà indigena possa fornire dei prestiti culturali alla cultura europea e che da questo matrimonio possa nascere una civiltà nuova, una civiltà meticcia.
L'errore di questa teoria sta nel fatto che essa riposa sull'illusione che la colonizzazione è un contatto tra civiltà come un altro e che tutti i prestiti si equivalgono.
La verità è molto diversa: il prestito è valido e benefico se è riequilibrato da uno stato interiore che lo invoca e che lo assimila al soggetto che se ne appropria; che da esterno lo rende interiore. Il pensiero di Hegel trova qui applicazione. Quando una civiltà prende un prestito, essa si impadronisce di qualcosa: agisce e non subisce. "Impadronendosi dell'oggetto il processo da meccanico diventa interno e attraverso di esso l'individuo si appropria dell'oggetto in modo da spogliarlo di tutto ciò che costituisce la sua particolarità, ne fa un mezzo e gli da la sostanza della propria soggettività." (Logica, t. II).
Il caso della colonizzazione è del tutto diverso. Non si tratta di un prestito chiesto in nome di un bisogno e di elementi culturali che si integrano spontaneamente nel mondo del soggetto. Malinowski e la sua scuola hanno ragione ad insistere su questo punto: il processo di contatto culturale deve essere considerato innanzitutto come un processo continuo di inter-azione tra gruppi di diverse culture.
Che dire, se no che proprio la situazione coloniale che mette l'uno in faccia all'altro il colonizzatore e il colonizzato è in ultima analisi il fattore determinante?
Il risultato di questa mancanza di integrazione attraverso la dialettica del bisogno è l'esistenza in tutti i paesi coloniali di un vero mosaico culturale. Intendo dire che in tutti i paesi colonizzati i tratti culturali si trovano giustapposti ma non armonizzati.
E che cosa è una civiltà se non un'armonia e una globalità? Una cultura non è una giustapposizione di tratti culturali e per questo non è possibile una cultura meticcia. Con questo non voglio affermare che delle persone biologicamente meticce non potranno dare vita ad una civiltà. Voglio dire, invece, che la civiltà che essi fonderanno non sarà una civiltà se sarà meticcia. Questo perché una caratteristica importante della cultura è lo stile, e cioè quella proprietà di un popolo e di un'epoca che si ritrova in tutte le loro manifestazioni. Nietzsche al proposito mi sembra illuminante. "La cultura è innanzitutto l'unità dello stile artistico che appare in tutte le manifestazioni vitali di un popolo. Sapere molte cose e averne apprese molte non è un carattere né una risorsa necessaria di una cultura, anzi, in certi casi si accorda proprio con il contrario della vera cultura, la barbarie: la mancanza di stile o il caos di tutti gli stili".
Non si potrebbe fare una descrizione più azzeccata della situazione culturale dei paesi coloniali. In questi paesi, infatti, la sintesi armoniosa che costituiva la cultura indigena si è dissolta ed è stata sostituita da un minestrone informe di tratti culturali eterogenei che si accavallano senza armonizzarsi. Non si tratta di barbarie per mancanza di cultura, ma di barbarie per anarchia culturale.
La parola barbarie può forse intimorire. Ma non possiamo dimenticare che le epoche di grande creatività sono sempre state delle epoche di grande unità psicologica, di comunione e che la cultura vive e si sviluppa intensamente lì dove vige un sistema di valori comuni. E che, al contrario, lì dove la società è in dissolvimento, si frantuma e si disperde in una varietà di valori non riconosciuti dalla comunità. Si fa posto così all'imbastardimento e alla sterilità della cultura.
Un'altra obiezione possibile è che qualsiasi cultura, per quanto grande sia, anzi tanto quanto più grande essa è, è un mélange di caratteri incredibilmente eterogenei. Basti pensare alla cultura greca, formata di elementi cretesi, egizi e asiatici. E ci si potrà spingere anche più in là, arrivando a sostenere che le culture sono sempre come gli abiti di arlecchino. Questo punto di vista ha trovato il suo interprete spirituale nell'antropologo americano Kroeber (Anthropology, 1948): "E' come se un coniglio potesse trapiantarsi il sistema digestivo di un montone, le branchie di un pesce, gli artigli e i denti di un gatto, qualche tentacolo della piovra e un assortimento di altri organi prelevati dalle specie animali più diverse e così sopravvivere, anzi perpetuarsi e prosperare. Dal punto di vista organico è senz'altro un non senso, ma nel dominio della cultura è una approssimazione molto vicina alla realtà."
Sono d'accordo: la regola vitale delle culture è la diversità. Ma attenzione: questa eterogeneità non è mai vissuta come tale. Nella realtà vivente di una civiltà si tratta sempre di una eterogeneità che viene vissuta interiormente come una omogeneità. L'analisi descrittiva può rilevare tutta la diversità che si vuole, ma gli elementi, per quanto eterogenei possano essere, sono vissuti dalla coscienza comunitaria come propri, allo stesso modo degli elementi più tipicamente autoctoni. La civiltà non avverte il corpo estraneo, perché esso non è estraneo. Gli scienziati possono ben dimostrare che l'origine di una parola o di una tecnica sia straniera, la comunità avvertirà quella parola e quella tecnica come proprie. Cosa è successo? Un processo di naturalizzazione che è ispirato dalla dialettica dell'avere. Degli elementi stranieri sono diventati miei, sono passati nel mio essere affinché io possa usarli, organizzarli nel mio universo e disporne per i miei bisogni. Sono a mia disposizione, non io alla loro. Proprio questa possibilità dialettica è impedita, invece, al popolo colonizzato. Gli elementi stranieri vengono depositati sul suo terreno, ma restano lì, estranei: cose dei Bianchi, usi dei Bianchi. Cose che restano nelle vicinanze del popolo indigeno ma sulle quali esso non ha potere.

Si dirà a questo punto: ma possiamo immaginare che il popolo colonizzato possa ricostituire questa unità infranta, integrando le nuove esperienze come nuove ricchezze in una nuova unità. Unità che non sarà mai quella di una volta, ma che sarà comunque un'unità.
Va bene. Ma diciamoci tutto con estrema chiarezza e fino in fondo: questa unità nuova è impossibile sotto il regime coloniale perché un tale mescolamento e rimescolamento non lo si può pretendere da un popolo se non è libero e padrone della propria iniziativa storica. E questa è incompatibile con la condizione coloniale.
Riprendiamo quello che abbiamo detto prima sulla dialettica del bisogno. Certo, il Giappone ha potuto salvare i suoi caratteri culturali tradizionali e fonderli con i prestiti europei in una nuova cultura che resta, però, cultura giapponese. Il Giappone, infatti, è sempre rimasto libero e ha potuto seguire la legge dei propri bisogni. Aggiungiamo pure che una operazione simile postula una salute psicologica: audacia storica e fiducia in se stessi. Esattamente ciò che il colonizzatore in mille modi e fin dai primi giorni tenta di rubare ai colonizzati.
E' importante comprendere che il famoso complesso di inferiorità che si assegna sempre alle culture colonizzate non è un effetto casuale: è un risultato ricercato dal colonizzatore.
La colonizzazione è un fenomeno che, tra le altre conseguenze disastrose dal punto di vista psicologico, comporta la distruzione di quei punti di riferimento essenziali attraverso cui i colonizzati stabilivano il loro rapporto con il mondo. Riprendiamo Nietzsche: "Come i terremoti devastano le città tanto che con angoscia gli esseri umani edificano sul suolo vulcanico le loro dimore, così la vita stessa si sfalda, si accascia e perde di coraggio quando il terremoto dei concetti priva l'uomo della base di ogni sicurezza e serenità, della sua fede in tutto ciò che è duraturo ed eterno."
Questo fenomeno, questa mancanza di coraggio di vivere, questo vacillamento della voglia di vivere, è stato spesso segnalato presso le popolazioni coloniali. Il caso più celebre è quello dei Tahitiani, analizzato da Victor Segalen ne Les Immemoriaux.
Insomma, la situazione culturale nei paesi coloniali è tragica. Ovunque faccia irruzione il colonialismo la cultura indigena comincia a decadere. E tra le rovine nasce non una nuova cultura, ma una specie di sub-cultura. Una sub-cultura condannata a restare ai margini alla cultura europea e ad essere premio per un numero ristretto di individui, <<l'élite>> locale che resta in una condizione artificiale, privata del contatto vivo con la cultura popolare e con le masse. Una cultura che non ha alcuna possibilità di trasformarsi in una vera cultura.
Il risultato è la produzione di zone di vuoto culturale o, il che è lo stesso, di perversione culturale o di cascami di sub-cultura.
Questa è la situazione che noi uomini di cultura neri dobbiamo avere il coraggio di guardare bene in faccia.
Di fronte a questa situazione che cosa dobbiamo, che cosa possiamo fare? Gravi responsabilità pesano sulle nostre spalle. Che fare? Si risponde spesso presentando la necessità di una scelta. Quella tra la tradizione autoctona e la civiltà europea. E quindi: o rifiutare la civiltà indigena come puerile, inadeguata, superata dalla storia, oppure, per salvare il patrimonio culturale indigeno, barricarsi contro la civiltà europea e respingerla.
In altri termini: "scegliete…scegliete tra la fedeltà e l'arretratezza e il progresso e la rottura".
Cosa rispondiamo? Che le cose non sono così semplici e che non c'è propriamente una alternativa. Che la vita (sto dicendo la vita e non il pensiero astratto) non conosce e non accetta quell'alternativa. O piuttosto, che è la vita che si incarica di trascenderla. Rispondiamo che un simile problema non si presenta solo alle società nere; che in qualsiasi società c'è sempre un equilibrio, sempre precario, sempre da ristabilire, e sempre ristabilito nei fatti da ogni generazione, tra l'antico e il nuovo. E che le nostre società e le nostre civiltà, le nostre culture nere non potranno sottrarsi a questa legge.
Crediamo che nella cultura africana o para-africana che nascerà ci saranno molti elementi nuovi e moderni ed elementi presi in prestito dall'Europa. Ma crediamo anche che sopravviveranno nelle nostre culture molti caratteri tradizionali. Ci rifiutiamo di cedere alla tentazione dell'idea della tabula rasa. Mi rifiuto di pensare che la futura cultura africana possa opporre un diniego totale e brutale all'antica cultura africana.
Per illustrare questi argomenti permettetemi di servirmi di una parabola: gli antropologi hanno spesso descritto ciò che uno di loro ha definito la stanchezza culturale. L'esempio che essi citano ha ormai assunto un valore emblematico. Ecco la storia: il luogo sono le isole Hawai. Qualche anno dopo della scoperta dell'arcipelago da parte di Cook, il re morì e gli succedette il giovane principe Kamehamela II. Affascinato dalla cultura europea egli decise di abolire la religione ancestrale e si accordò con il gran sacerdote per organizzare una grande festa nel corso della quale sarebbe stato rotto solennemente il tabù e annullati gli Dei ancestrali. Nel giorno stabilito, ad un segno del nuovo re il gran sacerdote si scagliò sulle immagini degli Dei, le calpestò e infranse mentre si levava un grido generale: "il Tabù è infranto". Inevitabilmente pochi anni dopo gli hawaiani accolsero a braccia aperte i missionari cristiani…Il seguito è il solito. Appartiene alla storia. Si tratta dell'esempio più chiaro che si conosca della sovversione culturale che prepara l'asservimento. E allora chiedo: è questa rinuncia di un popolo intero al proprio passato e alla propria cultura, è questo che ci aspetta?
Lo dico con estrema chiarezza: non ci sarà per noi un Kamehamela II!

Credo che la civiltà che ha dato al mondo dell'arte la scultura negra, la civiltà che ha dato al mondo politico e sociale degli esempi originali di istituzioni comunitarie, come la democrazia di villaggio o la fraternità di età o la proprietà su base famigliare, vera negazione del capitalismo, e tante altre forme sociali ispirate dalla solidarietà, che questa civiltà, la stessa che ha dato al mondo morale una filosofia originale fondata sul rispetto della vita e sull'integrazione cosmica, questa civiltà, per insufficiente che sia rispetto al mondo moderno, non può essere annullata e rinnegata perché possa nascere una nuova cultura dei popoli neri.
Credo che le nostre culture particolari celino in sé abbastanza forza vitale e capacità di rigenerazione per potersi adattare al mondo moderno, quando saranno rimosse le condizioni attuali e potranno offrire a tutti i problemi, politici, economici, sociali o culturali che siano, delle soluzioni importanti e originali, importanti proprio perché originali.
Nella nostra cultura futura ci saranno insieme antico e nuovo. Quali elementi nuovi e quali antichi? A questo punto comincia la nostra ignoranza. E, in verità, non è all'individuo che tocca dare una risposta. Essa può essere data solo dalla comunità. E comunque noi possiamo affermare da ora che essa sarà data e non verbalmente, ma nei fatti e attraverso l'azione.
Proprio questo, in definitiva, permette a noi altri uomini di cultura neri di poter definire il nostro ruolo. Il nostro ruolo non è quello di stendere a priori il programma della futura cultura nera o di predire quali saranno gli elementi che saranno integrati e quali quelli scartati. Il nostro ruolo, infinitamente più umile, è quello di annunciare l'avvento e di preparare la venuta di chi possiede il potere di rispondere: il popolo, i nostri popoli, liberati dalle pastoie, i nostri popoli e il loro genio creatore finalmente resi liberi da ciò che li ha ostacolati e insteriliti.
Oggi siamo nel caos culturale. Il nostro ruolo è di proclamare: liberate il demiurgo che può organizzare questo caos e trasformarlo in una nuova sintesi, una sintesi che meriterà il nome di cultura, una sintesi che sarà riconciliazione e superamento dell'antico e del nuovo. A noi uomini di cultura tocca reclamare: date la parola ai popoli. Lasciate che i popoli neri entrino sulla grande scena della storia.


* Discorso pronunciato al primo Congresso degli Scrittori Africani, a Parigi nel 1956. Traduzione di Armando Gnisci



L'autore, Aimé Césaire
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