|  TRAVESTI - 
                un brano del romanzo -
   Mircea 
                Cartarescu    (...) 
                Una mattina di gelo, col ciripì di passeri e rami d'albero 
                dorati. molto presto, ci siamo ritrovati nel cortile del liceo, 
                sotto una porta da pallacanestro, aspettando il pullman che doveva 
                portarci a Budila. I miei compagni, che oggi ricordo divertito 
                e con una punta di nostalgia, appena mi viene a mente tutta quell'epoca 
                bizzarra del rock e degli hippies, del magnetofono e delle rivolte 
                senza motivo, a quel tempo destavano in me orrore. Li sentivo 
                come un'idra ostile o come una società occulta di cui non 
                avrei mai fatto parte.  La loro stupidità e volgarità 
                m'irritavano, senza che mi rendessi conto che era soltanto lo 
                stile del tempo e che, al di là delle loro sfacciataggini 
                viziate, non erano che degli eterni, informi adolescenti, sconvolti 
                dal diluvio ormonale, da cui sarebbero venuti fuori come da una 
                catena di montaggio gli ingegneri, gli economisti, i conducenti 
                di autocisterne, tutti seri e responsabili, di qualche anno più 
                tardi. Da me, invece, non sarebbe uscito nulla, benché 
                m'immaginassi come il prodotto finale e assoluto dell'umanità. 
                Io ero l'uomo dello spirito, loro gli uomini della carne, io colui 
                che leggeva e che avrebbe scritto il testo che soppianterà 
                il mondo, loro quelli che, felici e cretini, vivevano come vegetali. 
                Ciò che mi tormentava di più, pur essendo totale, 
                violenta e impenetrabile la contrapposizione che avevo stabilito 
                tra me e loro, era il fatto di essere comunque incapace di disprezzarli. 
                Il sorriso di superiorità con cui li affrontavo mi riusciva 
                sempre male, il bisogno d'amore e di calore animale, infatti, 
                non si lasciava facilmente inibire, mi martirizzava il corpo e 
                metteva in subbuglio gli antri sotterranei della mia mente. Anche 
                la mattina della partenza per la vacanza me ne stavo in disparte 
                e provavo la mia posa infastidita, del tutto ignorato dai compagni 
                che, in gruppi annoiati, aspettavano che arrivassero i pullman, 
                lanciandosi reciproci lazzi sull'abbigliamento "civile", 
                moderno e vistoso, che aveva rimpiazzato le noiose uniformi: blue-jeans 
                con borchie e frange, camicie col "pelo in bella vista", 
                minigonne e scarpe 'ortopediche' con la zeppa. Alcuni di loro 
                cantavano le solite canzoni oscene che hanno riempito la mia adolescenza 
                quasi avessi uno spesso strato di lerciume nelle orecchie, e ancora 
                adesso li ricordo come dei ripugnanti inni di quel mondo volgarmente 
                vivace, innocentemente abietto. Altri si limitavano a chiacchierare 
                con le mani in tasca, o si tenevano alle sbarre verdi delle porte 
                da pallacanestro. Lì c'era Savin, con la sua figura da 
                genialoide, smilzo e salingeriano, che aveva ottenuto il voto 
                più alto in un test d'intelligenza che ci avevano dato 
                nell'ora di laboratorio di chimica, dei cartoncini che andavano 
                compilati in successione logica, test in cui io ero finito ultimo, 
                visto che mi ero accontentato di scrivere su ognuno un verso dada 
                di una poesia di Tristan Tzara, in cui i pescatori se ne tornano 
                con le mani piene di stelle marine. Un cretino molto intelligente, 
                questo Savin. Ora portava una specie di golf leggero, a collo 
                alto, che gli dava un'aria da scrittore, o meglio da écrivain, 
                soprattutto per come teneva ficcata la mano nella tasca dei pantaloni 
                e per come discuteva con Fil (cioè Felicia, con cui ho 
                da qualche parte, in un cassetto, una foto un po' sdolcinata) 
                naturalmente di Schopenhauer, dicendole come suona in tedesco 
                Il mondo come volontà e rappresentazione. E Fil, 
                un volto alla Mireille Mathieu, sembrava quasi capirci qualcosa. 
                Michi li guardava canticchiando "Goodbye, papa, don 't cry 
                for me" con la sua aria da Bambi viziata, mentre Manix guardava 
                ovviamente Michi. Se Manix dava l'idea di essere già quasi 
                un trentenne - l'ho rivisto di recente, ne dimostra cinquanta 
                - Papa, il calciatore-pingponghista-poeta, non sembrava averne 
                nemmeno quindici. Poeta, dico, in quanto possedeva un quaderno 
                di ricordi, con foto ritagliate da giornali, in cui copiava qualche 
                strofa presa dagli autori più diversi, accanto a improvvisazioni 
                sue. Tutti si erano confezionati simili "oracoli", quaderni 
                ornati e dipinti come maschere zulu, in cui scrivevano pensieri 
                o quartine ovvero si sforzavano di dare risposte agli interrogativi 
                fondamentali con formule ruminate da migliaia di cervelli bovini, 
                per i quali l'amore era naturalmente "un romanzo che si chiude 
                con l'introduzione", mentre lo scopo della vita era "fai 
                di testa tua, con calcolo, fino alla fine"... Nelle pagine 
                zeppe di foto con attori e pubblicità di automobili trovava 
                pure posto qualche poesia, copiata chissà da dove e passata 
                di quaderno in quaderno, così potevi avere la sorpresa 
                di trovare, in un Kitsch orrendo, frammenti di un sonetto di Rilke 
                o, in versione integrale, El Desdichado di Nerval. E sopra, 
                la foto del trionfo olimpionico di Nadia Comaneci... Appoggiato al muretto della pista di salto in lungo, insieme con 
                Angeru, insignificante nel suo ghigno, Papa ora cantava "Avanti, 
                su, lavoratori avanti / Sul cammino della grande conquista", 
                con un ritornello improvvisato che ripeteva ossessivamente: "Ista, 
                ista, tiralo fuori bene in vista", e che faceva scompisciare 
                dal ridere quelli che stavano intorno. Buzdugan, che già 
                dal primo anno aveva cominciato ad avere una barba verdognola, 
                sfogliava, appoggiato alla sbarra della porta, una rivista rock 
                d'avanguardia, piena di foto degli AC/DC in concerto. Intorno 
                a lui si erano raccolti sette-otto compagni indignati perché, 
                in un articolo che la Cici traduceva dall'inglese, il complesso 
                dei Queen veniva insultato da tutte le parti. La loro musica era 
                chiamata musak, e loro faggots. In particolare, non gli si perdonavano 
                le camicie bianche di seta con cui si esibivano nei concerti, 
                il colmo del conformismo borghese, a sentire l'autore dell'articolo. 
                Una ragazza con la fronte ricoperta di piccole pustole cercava 
                di voltare pagina per leggere quella di sotto. Avvolta in un soffice 
                golf di mohair rosa confetto, Clara se ne stava in disparte, bella, 
                saggia e pura, con la carnagione delicata come un sottile strato 
                di vetro e con gli occhi azzurro chiaro, una ragazza che nessuno 
                riusciva a immaginare che sarebbe cresciuta per diventare donna. 
                "Stai tranquillo, anche lei finirà prima o poi dentro 
                un letto," sussurrava qualcuno di noi, di sera, nelle ore 
                di pratica al laboratorio, vedendo come maneggiava il cacciavite 
                dentro a un adattatore d'impedenza (che a decine noi mandavamo 
                in malora), come se stesse separando delicatamente i petali di 
                una rosa, alla ricerca degli stami. Più in disparte, sopra 
                un cancello di ferro invaso dai convolvoli, stava Titi, Titina, 
                come veniva pure chiamato, col volto aggrottato del giovane Voltaire. 
                I ragazzi presero a giocare a calcio con una scatoletta di pâté, 
                le ragazze spettegolavano in un angolo che emanava profumo, mentre 
                io, triste e cupo, ignorato, recitavo ancora, tra me: "E 
                piove nell'ora vagamente crepuscolare / Quando tutti i sentieri 
                s'incamminano verso l'aurora..."
 Mi sentivo, come sempre, escluso dal mondo dei miei compagni. 
                Avevo familiarizzato con l'idea che non potesse esserci per me 
                che un unico futuro: una soffitta con una sedia, un tavolo e un 
                letto in cui sarei marcito per tutta la vita - breve, quarant'anni 
                al massimo - scrivendo un romanzo infinito e illeggibile, che 
                avrebbero ritrovato dopo la mia morte, accanto a me, col puzzo 
                di cadavere, dove ci sarebbe però stato Tutto, tutta la 
                verità sull'esistenza e l'inesistenza, il mondo intero 
                con tutti i suoi dettagli e col suo squallido significato. La 
                fantasticheria in cui m'immaginavo, all'epoca, come lo scrittore 
                totale, ipergeniale, demolitore del cosmo, da soppiantare con 
                un libro, era la colonna vertebrale della mia vita. Pur di scrivere 
                il Libro, mi sarei lasciato scorticare la pelle da dosso, e con 
                la mia pelle viva, con capillari, terminazioni nervose e glomeruli 
                sudoripari, avrei rilegato l'onnicomprensivo volume. Per serate 
                intere, quando le pareti della mia camera di via Stefan cel Mare 
                si tingevano del rosso del tramonto, mi raggomitolavo sotto il 
                lenzuolo umidiccio e, con l'immaginazione, sfogliavo di nuovo 
                le pagine abbaglianti. Ideavo tavole di corrispondenza che avrebbero 
                collegato le costellazioni della volta celeste con i fiori minerali 
                del profondo della terra, gli organi del corpo umano con i nomi 
                sfarzosi dell'Almanacco di Gotha, mettendo in relazione, passo 
                dopo passo e momento dopo momento, la storia dell'umanità 
                con la storia dei miei poveri diciassette anni di vita. Avrei 
                svelato intrighi fantastici, orditi in palazzi sotterranei di 
                marmo e di porfido dal principe di questo mondo, e descritto un 
                Armaghedòn sbocciato come un garofano, che avrebbe coinvolto 
                nella guerra totale pirati e cavalieri di Malta, guerrieri Bororo 
                e nazisti, angeli ed extraterrestri. Le storie d'amore avrebbero 
                ornato come ghirlande rococò la battaglia finale, e tra 
                di esse si sarebbe trovata, fondendole tutte, pur nella loro diversità, 
                in un archetipo mistico, come una sorta di filigrana dell'intero 
                volume, La-più-bella-storia-d'amore, il mistero ultimo 
                e infinito, in cui la Pricipessa-Ovulo si fondeva con il Principe-Sperma 
                nell'esplosione di una straordinaria unione nuziale. Febbricitante 
                perdevo ore intere a immaginare i particolari. Qualche volta una 
                forza immane mi sollevava improvvisamente dal letto e mi trascinava, 
                con le lenzuola e il resto, fino allo scrittoio, dove impugnavo 
                la stilografica e, avvoltolato come in una toga, rimanevo con 
                la punta del pennino fissa sulla pagina. Le strisce purpuree sui 
                parati diventavano di un bruno scuro mentre sopra Bucarest si 
                levava la luna, i tram passavano cigolando e stridendo per Stefan 
                cel Mare, mentre io guardavo ancora come ipnotizzato lo scintillio 
                dorato dell'estremità del pennino, interrogandomi con quale 
                lettera convenisse iniziare il Libro e insieme senza avere il 
                coraggio di scriverne sulla pagina ormai in penombra nemmeno una...
 
  (Brano 
                tratto dal romanzo Travesti, Voland, 2004, Roma) 
               
  Mircea Cartarescu (Bucarest, 1956) è considerato 
                uno dei più importanti autori rumeni contemporanei. Poeta, 
                autore di romanzi e critico letterario, ha ricevuto nel suo paese 
                importanti riconoscimenti. I suoi libri sono stati tradotti nelle 
                maggiori lingue europee. 
 
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